Dal Salmo 23
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
di Ettore Sentimentale
Ogni 4a domenica di Pasqua la Chiesa celebra la Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni e per tale occasione sistematicamente offre alla comunità dei credenti l’opportunità di riflettere sul “Buon pastore” (brano evangelico estratto dal cap. 10 secondo Giovanni che definisce Gesù “Pastore Bello”). Se il sottofondo celebrativo è quello appena descritto, giocoforza il salmo non può non essere quello che canta “Jahweh pastore” del popolo, a cominciare dall’orante. Su questo carme, in effetti mi sono già soffermato alla IV dom. della scorsa Quaresima.
Per questa occasione però tento di rileggerlo – vista la coincidenza di cui parlavo sopra – in chiave “vocazionale”, forte anche della nuova «Ratio fundamentalis “Il Dono della vocazione presbiterale”», emanata l’8 dicembre 2016.
In premessa dico che non è certo facile parlare del proprio mondo. C’è sempre il rischio di essere massimalisti o minimalisti. Spero di tenere l’equilibrio, ma senza scadere nell’equilibrismo. Desidero solo presentare alcune piste di riflessione che fondandosi sul contenuto del salmo, possano illuminare – attraverso la nuova Ratio – la missione dei presbiteri.
Proprio all’inizio del suddetto documento (n. 3) viene chiarito l’àmbito della vita presbiterale e della relativa preparazione a tale ministero: «L’idea di fondo è che i Seminari possano formare discepoli missionari “innamorati” del Maestro, pastori ‘con l’odore delle pecore’, che vivano in mezzo ad esse per servirle e portare loro la misericordia di Dio». Tutti comprendiamo intellettualmente il riferimento al vocabolario bergogliano circa “l’odore delle pecore”, ma difficilmente cogliamo tale indicazione in modo esperienziale. Il motivo è semplice: abbiamo dimenticato (o addirittura non abbiamo mai visto un pastore con il gregge) la sollecitudine, l’attenzione, la delicatezza, la fermezza, gli scontri che il pastore affronta nella protezione delle pecore, popolo che egli pasce. Per chiarirsi le idee su questo punto, basterebbe leggere le “avventure pastorali” di Davide. “Io ti presi dai pascoli, mentre tu seguivi il gregge” (2 Sam 7,8) sente riferire il re per bocca di Natan a nome di Dio. E Davide era l’immagine di Jahweh, che “come un pastore fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11).
Il pastore non può non avere un occhio attento alla crescita lenta e progressiva del gregge affidatogli. Un concetto che S. Benedetto ha colto molto bene e focalizzato nella famosa Regola (64,18), dove lo applica all’abate dicendo che il “padre” della comunità nelle sue decisioni e prescrizioni deve sempre usare discrezione e misura “pensando alla discrezione del santo Giacobbe che diceva: «Se faccio stancare troppo le mie greggi a camminare, mi moriranno tutte in un sol giorno»” (Gen 33,13). Certamente, l’abate (nel nostro caso “il pastore”) deve essere preoccupato del cammino che il gregge deve fare, ma S. Benedetto non vuole che il progetto di progresso del superiore, o di una parte della comunità dimentichi di che pasta sono fatte le pecore che devono compiere tale cammino.
Quante sviste pastorali si sarebbero evitate se si fosse tenuto conto di questa “intuizione” (adeguandola ai casi specifici) del padre del monachesimo occidentale!
Essere pastori oggi comporta voler marciare sui sentieri degli uomini, punteggiati dalla presenza mite e gioiosa del “Pastore Bello” che chiama tutti alla felicità. Lo specifico del pastore è quello di instillare nel gregge affidatogli (non dimentichiamo l’invito di Gesù a Pietro: “Pasci le mie pecorelle” – Gv 21,16) proprio il desiderio di felicità, dono che proviene da Dio, sperimentato dal pastore e che trova perfetta realizzazione nel Signore: “bontà (ma pure “felicità”) e grazia mi saranno compagne…e abiterò ancora nella casa del Signore, per lunghi giorni”.
Ecco perché la nuova Ratio, riprendendo quasi di peso l’Esortazione apostolica “EvangeliiGaudium” (24-11-2013) presenta il “proprium” del presbitero: un uomo di sane relazioni, in reciproco dialogo con la “sua” comunità la quale è chiamata – anche davanti allo scarso impegno del sacerdote – attraverso “la vita fraterna e fervorosa”… a risvegliare in lui “il desiderio di consacrarsi interamente a Dio” (EG 107). Il discorso quindi non riguarda solo il “pastore” ma l’intero gregge (=popolo) di Dio, guidato sì dai pastori, dei quali – in ultima analisi – la comunità è chiamata a valutarne, prima dell’ordinazione, la possibile idoneità.
Molti pensano – alla luce di questa Ratio – che bisogna “fermare le bocce” dell’azione pastorale e rivedere criteri e scelte ecclesiali. Lo penso anch’io rifacendomi alla metafora iniziale del pastore che emana “l’odore delle pecore” e che S. Giovanni definisce “bello” perché animato dal desiderio di trasmettere “la gioia del Vangelo”.
Tutto il resto è subordinato all’impellente necessità di cercare il Regno di Dio e la sua giustizia. In tale operazione il pastore usa il “bastone e il vincastro” per guidare il gregge, che anela le “acque tranquille, i pascoli erbosi” ove “rinfrancare” pienamente la sua “anima”.