Dal Salmo 69
Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.
Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza.
Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.
di Ettore Sentimentale
Il salmo proposto in questa XII dom. del tempo ordinario è la risposta orante alla prima lettura (Ger 20,10-13) nella quale il profeta presenta da un lato la desolante cattiveria dei nemici che lo circondano e dall’altro la ferma fiducia nella “vendetta” di Dio, che scruta mente e cuore dei giusti.
Il genere letterario del piccolo stralcio del salmo 69 offertoci dalla liturgia è quello della supplica, ritmata da sentimenti di sofferenza di vario genere. A cominciare dall’indifferenza dei parenti e degli amici: “Sono diventato un estraneo per i miei fratelli…”. Perché? L’orante, divorato dalla zelo e dalla fedeltà al Signore, si vede ristretto in una particolare forma di “esilio”: l’isolamento familiare e sociale. E si ritrova (inevitabilmente) senza alcuna difesa. È un reietto. L’orizzonte teologico è quello del “servo di Jahweh” descritto in Is 53.
L’espressione “lo zelo per la tua casa mi divora” verrà ripresa dai discepoli di Gesù in Gv 2,17 per descrivere – all’interno della purificazione del tempio – la contrapposizione fra il Maestro e i giudei. L’insegnamento è chiaro e diretto: l’ostilità contro Dio si riflette sul fedele che pubblicamente lo onora.
Fra gli esempi contemporanei di fedeli zelanti va annoverato sicuramente p. Pio da Pietrelcina.
Di fronte a tanta e pesante cattiveria, tuttavia, il salmista ha una reazione di speranza e fierezza: prega per non cedere nelle avversità, anzi confida ancor di più nella benevolenza divina che gli può donare la salvezza sospirata. Le parole del salmista sembrano quasi un movimento deciso verso le braccia del padre, ricco di misericordia. E in un crescendo inarrestabile di fiducia l’orante gioca la “carta vincente” appellandosi alla “tenerezza” divina (lett. “rachamèkha”, da “rahamîm=pietà, compassione”). In pratica, chiama in causa la misericordia con la quale il Signore si china sulle creature provate dalle sofferenza e le solleva – portandole alla sua guancia (immagine antropomorfica) – per offrire loro consolazione e sicurezza.
Il rimando al vangelo sondo Luca (narratore della bontà divina), particolarmente al cap. 15, è obbligato.
Nella parte finale del nostro testo troviamo addirittura l’impegno (sotto forma di augurio) del salmista ad essere testimone coraggioso dell’intervento prodigioso di Dio. Provato dalla vita e consolato dal Signore, l’orante augura felicità e lunga vita ai “poveri”. Anche costoro, al di là delle sofferenze, possono godere della vicinanza e della consolazione divina, “perché il Signore ascolta i miseri”. Un motivo in più per il quale l’universo intero deve darGli gloria.