Suicidi d’estate

La notizia dell’ennesimo suicidio in carcere mi ha fatto pensare che l’Assassino dei Sogni (il carcere, come lo chiamo io) convince a togliersi la vita più d’estate che d’inverno. Che amarezza però che quasi nessuno ne parli e dica che la sofferenza che c’è in un carcere non si trova in nessun altro luogo, neppure nelle corsie di un ospedale. I suicidi dall’inizio di quest’anno sono arrivati a 32, per un totale di 68 morti.
Per sensibilizzare l’opinione pubblica ho pensato di dare voce a qualche detenuto che s’è tolto la vita (che altro posso fare?) raccontando la storia di Melo, un prigioniero che ho conosciuto molto bene.

Melo attaccò lentamente la cintola dell’accappatoio alle sbarre della finestra.
La osservò con attenzione.
E pensò che in fondo la sua non era stata una brutta vita.
Aveva sempre vissuto come aveva potuto. E non certo come avrebbe voluto, ma non aveva mai smesso di amare l’umanità, anche quando questa l’aveva maledetto e condannato a essere cattivo e colpevole per sempre.
Ricordò che i filosofi non consideravano la scelta di suicidarsi un crimine o un peccato, ma solo un modo di abbandonare la scena quando la vita diventava inutile.
E la sua vita, oltre che inutile, ora era diventata anche insopportabile.
Si augurò di non svegliarsi mai più.
Né in paradiso né all’inferno.
Ne aveva già abbastanza di questo mondo.
E anche dell’altro, dove presto sarebbe andato.
Melo non temeva la morte.
Era già da tanto tempo che l’aspettava.
E lei, per fargli dispetto e per continuare a lasciarlo in prigione, ritardava a venire.
Ora però sarebbe stato lui ad andare da lei.
Ogni prigioniero resiste a stare in carcere fino a un certo punto, che varia secondo la storia di ognuno.
Poi per alcuni, ad un certo momento, non rimane altro che impiccarsi alle sbarre della finestra della propria cella.
Melo aveva già superato questo limite da molti anni, ma non aveva ancora avuto il coraggio di togliersi la vita in quel modo. Troppi ne aveva visti di prigionieri appesi alle sbarre.
Era terrorizzato di fare quella fine.
Una volta aveva tentato di salvarne uno, senza riuscirci, tenendolo per i piedi.
Avrebbe preferito scappare dall’Assassino dei Sogni con una morte dolce, ma non poteva certo andare in Svizzera per chiedere l’eutanasia.
Melo camminò un po’ per la cella, avanti e indietro.
Poi si sdraiò sulla branda.
Fissò il soffitto macchiato di umidità, per una diecina di minuti.
Si scrollò gli ultimi dubbi di dosso e non ci volle pensare più.
Si guardò intorno, quasi per paura che qualcuno lo potesse vedere e impedirgli di fuggire per sempre dall’Assassino dei Sogni.
Tentò un debole sorriso a se stesso.
Si tolse la malinconia con una scrollata di spalle.
In tutti questi anni ci aveva pensato anche troppo.
Montò sullo sgabello.
E lo fece cadere.
Subito dopo ebbe la sensazione di annegare.
Sentì il cuore addormentarsi.
Fissò le sbarre della finestra.
E si consolò pensando che era l’ultima volta che le vedeva.
Provò la sensazione che le pareti della cella si stessero stringendo verso di lui.

Poi venne il buio.
Ed era così denso che sembrava gli sorridesse.
La morte e la libertà erano così vicine che sarebbe bastato allungare la mano per toccarle.
E lo fece.
Prima toccò la morte.
Poi abbracciò la libertà.
Pensò che finalmente ce l’aveva fatta.
Era finalmente libero.
Cadde nel torpore.
Smise di respirare.
E dopo trentatré anni di carcere Melo fu finalmente libero.
Uscì per sempre dalla sua vita.
E si addormentò, come sanno fare solo i morti.

Carmelo Musumeci