Dal Salmo 18
Ti amo, Signore, mia forza
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.
di Ettore Sentimentale
Il testo che la Liturgia della Parola offre in questa XXX dom. del tempo ordinario “A”, è un piccolo frammento (5 versetti) rispetto all’intero salmo (51 versetti). La selezione operata presenta l’introduzione e la conclusione, omettendo praticamente la parte centrale in cui vengono elencati dettagliatamente i motivi della lode.
Il genere letterario di questo inno (dall’orizzonte messianico-regale) è quello del rendimento di grazie per la liberazione ad opera di Jahwe nei confronti di Davide, quando il Signore intervenne prodigiosamente per conciliare i dissidi interni della casa d’Israele e fece sì che il re potesse esercitare il suo dominio su tutto il popolo. Nell’incipit (omesso) del salmo si legge infatti: “…parole di Davide rivolte al Signore quando lo liberò dal potere di tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul”. Lo sfondo storico di questa composizione, lo si può facilmente rintracciare in 2 Sam 22.
Dopo questa inevitabile “contestualizzazione”, vorrei riprendere il testo in alcuni passaggi, mettendo bene a fuoco soprattutto l’esordio del nostro testo: “Ti amo, Signore, mia forza”. La riflessione non può iniziare che da qui. Nel testo ebraico troviamo il verbo “rhm” che mette in risalto un fatto unico e raro. Tale espressione designa un amore fatto di compassione e di tenerezza e ha sempre Dio come soggetto. Invece solo qui – in tutto il salterio – Dio diventa oggetto dell’amore dell’uomo.
L’orante si fa “intraprendente”, rompe gli schemi classici che invitano ad un atteggiamento di rispetto e di venerazione e osa parlare di Dio come oggetto del suo “amore. Dirà poi S. Giovanni: “nell’amore non c’è timore” (1 Gv 4,18).
Dove trova il salmista il coraggio di una espressione così ardita? Dentro di sé, nello sguardo introspettivo che lo “costringe” a rileggere la propria vita come una costellazione di interventi divini e dalla quale scaturisce un doppio ordine di considerazioni: a) lo stretto legame fra lui e Dio: il salmo è ritmato dall’attributo possessivo “mio”, segno di reciproca e profonda appartenenza; b) serie di immagini divine che donano protezione costante: forza, liberatore, roccia, fortezza, salvezza…Mi soffermo velocemente sulla prima. Secondo la costruzione sintattica, il nostro testo propone due realtà interdipendenti, potremo dire il dritto e il rovescio della medaglia: 1) la forza dell’orante viene dal Signore, 2) il Signore gli è sempre sostegno e protezione.
Nel pregare questo salmo, per me è normale riassaporare uno dei canoni più belli di Taizé: “Il Signore è la mia forza e io spero in Lui…in Lui confido non ho timore”. Nell’originale lingua catalana suona meglio: “El Senyorés la mevaforça, El Senyor, elmeucant. Ell ha estat la salvació. En ellconfio i no tinc por, En ellconfio i no tinc por”.