Ammazzare la noia con foto hot ha delle conseguenze. Noi adulti dobbiamo insegnare il senso del limite

Il fenomeno non è sconosciuto, ma quello delle 60 minorenni, tutte studentesse dei licei di Modena e Reggio Emilia, è di certo inedito nelle proporzioni. Le ragazze, per sconfiggere la noia, hanno messo in piedi un “gioco” hot, postando foto e video che le ritraggono in pose provocanti, con l’aggiunta di qualche invito vocale a passare ai fatti. Il “gioco”, però, a un certo punto è sfuggito di mano, e le immagini che dovevano restare di dominio di alcuni, sono diventate di tutti. Con tanto di nomi e cognomi pubblici che circolano ancora in rete. Alcuni dei genitori sono venuti a sapere delle azioni delle figlie. Perché internet, si sa, non conosce confini e non ha limiti.
«Mi è capitato spesso di sentire il racconto di minorenni che mettono in piedi questo tipo di chat, ma di solito sono gruppi più ristretti, con al massimo 7 o 8 ragazze. Su questo tema urge una riflessione e la messa in moto di azioni che stimolino il senso critico e di responsabilità sia dei genitori sia dei giovani», premette Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, Presidente Di.Te, l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo.
Tra le motivazioni di una delle liceali appartenenti alla chat hot, riporta il QN di oggi, c’è “la noia, l’averlo fatto un po’ per scherzo. Ci mostravamo a vicenda i seni per far vedere quanto erano abbondanti, e le parti intime, per paragonarci tra noi. Ci piaceva esibirci in questo modo. Ma non avremmo mai immaginato che quel materiale sarebbe uscito dalla chat”. Noia, gioco, scherzo… queste azioni hanno delle conseguenze, però. «Certo, ne hanno. Ma dobbiamo prima comprendere perché lo fanno», afferma il Presidente dell’Associazione Di.Te, Giuseppe Lavenia: «Questi ragazzi hanno bisogno di conferme. Manca tantissimo in questo tempo lo spazio per il confronto. Mancano gli spazi sociali della condivisione. Dell’altro abbiamo bisogno, ma l’altro reale non c’è più. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che con la tecnologia il corpo è scomparso, e con lui le emozioni, che vengono dissociate nei luoghi della rete».
Il corpo, gli adolescenti, fino a non molti anni fa, tendevamo a coprirlo, a nasconderlo, mentre oggi viene mostrato senza pensarci due volte. Come mai? «Sono cambiate tante cose in poco tempo. C’è una iperstimolazione di immagine erotiche, che fanno credere che il corpo abbia un valore minore e che lo si possa mostrare senza farsi troppe domande. In più, anche gli adulti, i genitori, pubblicano foto di loro stessi in costumi molto succinti, o in pose provocanti. I figli imparano dall’esempio dei grandi che hanno come riferimento», sostiene Lavenia.
Alcune di queste immagini e di questi video pare siano stati fatti anche a scuola. Dimostrando un uso troppo disinvolto dello smartphone, a cui hanno accesso ormai tutti e in giovane età. «Il tema da trattare con urgenza è che la tecnologia è diventata il mediatore delle nostre emozioni e ci fa da sostegno sociale e identitario. Il cellulare, in generale, andrebbe dato ai ragazzi dopo i 13 anni, facendoglielo usare in modo consapevole e interessandosi alla loro vita online. Le statistiche, però, dimostrano che già a partire dalla prima media lo possiede il 55% dei ragazzi, in seconda media ce l’ha il 71%, mentre in terza media l’80%. Questo vuol dire che stiamo trasgredendo una regola dei social: per iscriversi bisogna avere più di 13 anni. Anche a scuola, c’è molto da fare: c’è ancora molta confusione sull’uso degli strumenti tecnologici e prima di portarli a scuola dovremmo costruire un modello con delle norme chiare e condivise da tutti. Bisogna poi fare un lavoro per l’utilizzo corretto e consapevole della tecnologia», aggiunge Giuseppe Lavenia.
Come si può fare ad aiutare i ragazzi a ritrovare il senso della responsabilità e la capacità critica? «Bisogna partire dai genitori, anche loro utilizzatori degli strumenti tecnologici, spesso rapiti dagli smartphone e poco attenti ai bisogni dei ragazzi. Non è una critica e nemmeno un’accusa: viviamo un tempo nuovo, dove molto spesso è facile entrare in confusione o farsi prendere la mano dal bisogno di stare sempre connessi, fino a diventare dipendenti. E quando si arriva a questo punto, ci si fa usare dalla rete e non si è più fruitori consapevoli», osserva il Presidente dell’Associazione Di.Te, Giuseppe Lavenia.
Quali consigli dare ai genitori per aiutare i ragazzi e prevenire questi fenomeni? «Dobbiamo dare loro attenzione e non esercitare un controllo indiscriminato. Non dobbiamo fare terrorismo e dobbiamo condividere con i nostri figli quanto accade anche nella loro vita online, senza minimizzare quello che ci portano come un problema. Potrebbe essere per esempio qualcosa che riguarda il loro corpo, ma liquidare la faccenda con “cosa stai dicendo?”, o con un “dai, smettila di dire così che non è vero”, è un modo per farli andare a cercare conferme altrove, magari su una chat. I ragazzi devono potersi esprimere, dobbiamo partire dal perché fanno ciò che fanno in rete. La tecnologia elimina il senso di solitudine che abbiamo: mostrando una parte di me e condividendola sui social mi sentirò meno solo, o crederò di essere meno solo, il mio dolore sarà lenito. Gli adolescenti provano dolore vedendo il loro corpo, che credono imperfetto. Però, nonostante questo, a un adolescente nato con le nuove tecnologie in mano non importa nulla se gli rubano l’identità, perché il suo bisogno di conferme e di essere riconosciuto vince sul resto, anche sulla razionalità. La tecnologia, la dipendenza tecnologica, poi, abbassa la soglia di rischio e di consapevolezza. Bisogna rivedere il modello educativo genitori-figli», afferma Giuseppe Lavenia. Come si fa? «In primis, dando delle regole ai ragazzi e facendole rispettare, sapendo però che possono trasgredire. I ragazzi non hanno più il senso del limite, non gli manca il senso del pudore o della responsabilità. Hanno perso il controllo. La tecnologia ci sta cambiando, tutti noi perdiamo il controllo. Bisogna che i genitori partecipino alla vita dei figli, informandosi attivamente su cos’è davvero la tecnologia perché non è un gioco, che dialoghino con loro, riducendo il gap generazionale che c’è tra loro e i ragazzi, che sappiano ascoltare i loro bisogni, che non minimizzino i problemi che i figli portano alla loro attenzione e che diano regole chiare e precise senza dare nelle loro mani il cellulare prima dei 13 anni. Bisogna inoltre che prestino attenzione a tutti i segnali degli adolescenti, senza esercitare ossessivamente il controllo sul cellulare, ma essendo emotivamente e affettuosamente presenti nella vita dei ragazzi», conclude il Presidente dell’Associazione Di.Te, Giuseppe Lavenia.