Il classismo giudiziario si vede soprattutto in carcere, dove si trovano tante persone economicamente svantaggiate e stranieri. La giustizia adesso è solo una discarica sociale, una macchina per schiacciare gli ultimi. È importante che lo Stato cominci a tutelare seriamente i diritti delle persone detenute, non solo di quelle libere.
Credo che una persona in carcere dovrebbe perdere solo la libertà e non la dignità, la speranza, la salute, l’amore e, a volte, anche la vita. Diciamolo chiaramente: quasi sempre si finisce in questi posti per avere commesso dei reati, ma poi nella maggioranza dei casi si va, di fatto, in un luogo che nega la legalità e dove la legge infrange la sua stessa legge. In carcere in Italia sembra di stare in un cimitero, con molti detenuti nelle brande sotto le coperte a guardare i soffitti, imbottiti di psicofarmaci. Il problema è che molti di noi non sono ancora morti, anche se a volte ci comportiamo da morti. Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti. E quelli che riescono a sopravvivere, una volta fuori, saranno peggio di quando sono entrati.
Credo fermamente che l’abolizione del 41 bis sia una questione di civiltà e di opportunità. Infatti il 41 bis è tortura, e questo non lo dico io ma numerose organizzazioni internazionali, fra cui l’ONU. È un regime dalle restrizioni assurde, fra cui il divieto di appendere la foto di una persona cara in cella.
In carcere non ci sono alberi, fiori, prati. Nei cortili di cemento dove trascorriamo l’ora d’aria non c’è mai un filo d’erba. Tutti i passeggi assomigliano a delle tombe allargate, dove i detenuti vanno avanti e indietro. Spesso nelle aree dei detenuti di alta sicurezza il cielo viene coperto da una fitta rete metallica. Ed in questo modo questi fazzoletti di cemento assomigliano a delle voliere per uccelli. I cortili dei passeggi che mi sono rimasti più impressi sono quelli che ho trovato nel carcere dell’Asinara, quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Arrivai all’Isola del Diavolo nel 1992, ci sono rimasto per cinque lunghi anni, scontando un anno e sei mesi d’isolamento diurno, pena accessoria all’ergastolo, che, sottoposto al regime di tortura del 41 bis, diventò un isolamento totale. Non potevo parlare e incontrare nessuno. E andavo a passeggiare in cortile in completa solitudine. Mi ricordo che le celle erano umide e buie, larghe un metro e mezzo e lunghe due metri e mezzo. E con le pareti scrostate. Le celle avevano i pavimenti di cemento color pece, con grossi cancelli arrugginiti davanti. E pesanti blindati dietro, dotate di una feritoia per fare passare i pasti. Nelle finestre c’erano le doppie sbarre, esternamente circondate da spesso filo spinato. Sia il cancello che il blindato rimanevano sempre chiusi, sia di giorno che di notte, sia d’inverno che d’estate. Stavo tutto il giorno senza fare nulla, a giocare con le formiche d’estate e con i topolini d’inverno. Potevo usufruire solo di due ore di aria al giorno. Una settimana le facevo di mattina e una settimana di pomeriggio. Mi ricordo che i cortili dei passeggi del carcere dell’Asinara assomigliavano a delle piccole gabbie per topi. Erano larghe una decina di passi e lunghe una quindicina. Erano circondati da alte mura ed il cielo era coperto da una fitta rete metallica. Ricordo ancora come se fosse adesso quelle lunghe passeggiate con le spalle curve in un fazzoletto di terra di pochi metri.
Oggi l’antimafia è lotta economica, lavorativa e culturale. Si combatte non facendoci affari e sequestrando i loro beni con serietà e capillarità. Si attacca con la presenza dello Stato, dando un’opportunità di lavoro a chi normalmente è costretto a chiederla alla criminalità. È con l’assenza dello Stato e la disperazione delle persone che le mafie fanno proselitismo. La costruzione di una coscienza comune del problema, dal basso, è fondamentale. Questo lo fai con l’associazionismo e osteggiando l’evasione scolastica.
Credo che in una certa antimafia di oggi ci sia molto mafia. Si vuole che i detenuti prendano coscienza, si vogliono prigionieri più responsabili, ma di fatto quasi sempre viene negata ogni possibilità di autodeterminazione. Io penso che bisognerebbe riconoscere ai detenuti un ruolo attivo, non da semplice frequentatore delle patrie galere, per educarsi ed educare. Invece spesso ci sentiamo parcheggiati nel limbo, in una situazione incerta e indefinibile, per mancanza di risposte e di atti concreti.
L’ergastolo equivale alla pena di morte, perché si fonda sull’idea che la persona vada solamente soppressa, senza una finalità riabilitativa. Il carcere esiste per rieducare. È contraddittorio essere contrari alla pena di morte e favorevoli all’ergastolo.
Penso che se vuoi punire un criminale, cambiandolo in meglio, devi perdonarlo, se invece lo vuoi peggiorare, e far sentire innocente, basta condannarlo ad essere colpevole per sempre, perché sono convinto che il perdono ti punisce più di qualsiasi altra pena. Forse per questo molti criminali hanno più paura del perdono che della durezza della pena, perché il perdono tira fuori tutti i sensi di colpa. Penso che neppure Dio potrebbe condannare una persona per sempre. Se lo facesse, smetterebbe di essere Dio.
Noi abbiamo solamente preso atto che il sistema, così com’è, non funziona. In Italia il 90% di personale carcerario è personale di sorveglianza. È evidente che un carcere di secondini sia carente dal punto di vista rieducativo. Servono professionalità che integrino quella della semplice sorveglianza.
La società vorrebbe chiudere i criminali e buttare via le chiavi, ma bisogna rendersi conto che prima o poi alcuni di questi usciranno. E molti saranno più cattivi di quando sono entrati. È difficile migliorare le persone con la sofferenza e l’odio.
Carmelo Musumeci