di ANDREA FILLORAMO
Non occorre essere protestanti per affermare che in un certo cattolicesimo possa esserci un’evidente anima pagana mai sopita che si veste di folklore, di gesti rituali e di consuetudini, di alcune celebrazioni cosiddette “extraliturgiche”, di culti, che suscitano in più occasioni nei fedeli un irrefrenabile riflusso verso forme dal sapore ancestrale, con le quali si rende manifesta la cosiddetta religione popolare, alla quale bisogna riconoscere la sua dignità, tranne quando scade nella creduloneria, nelle superstizioni, che attecchiscono molto facilmente in quel terreno, nell’eresia.
Sono spesso consuetudini ritenute da alcuni irrinunciabili con cui non mancano, però, quanti cercano di armonizzare ortodossia e credenze. Spesso, però, da tutto ciò nasce una grande confusione che non fa vedere i confini dell’uno e dell’altro.
A tal proposito Paolo VI, nel lontano 8 dicembre 1975, nell’Esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” scriveva: “Qui tocchiamo un aspetto dell’evangelizzazione che non può lasciare insensibili. Vogliamo parlare di quella realtà che si designa spesso oggi col termine di religiosità popolare” Essa – continua il Papa – “ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione, anzi, di superstizioni. Resta spesso a livello di manifestazioni culturali senza impegnare un’autentica adesione della fede. Può anche portare alla formazione di sette e mettere in pericolo la vera comunità ecclesiale”.
Di questo indubbio problema già si era occupato il Concilio Vaticano II (1962-1965), che nella Costituzione “Sacrosanctum Concilium” del 4 dicembre 1963, aveva cercato di fornire un indirizzo d’azione sul come realizzare tale armonizzazione, affidando il gravoso compito ai vescovi. Ciascun vescovo, all’interno della propria diocesi si deve confrontare con forme diversificate di residuo pagano (o pietà popolare che dir si voglia), tenendo conto del fatto che il dettato conciliare ha posto la Liturgia al centro della vita cristiana, a cui ogni altra manifestazione deve necessariamente adeguarsi o soccombere.
Non è stato e non è facile questo compito per i vescovi e, di conseguenza, per i parroci, che talvolta o spesso fanno consistere il loro ministero tutto su tali gesti rituali.
Diciamo di più, negli ultimi tempi, dopo la pandemia, si nota, anche attraverso la Rete, che in molte parrocchie e quindi in molte diocesi e non soltanto del Sud, sembra che il paganesimo, vestito di pietà popolare, a dispetto della sobrietà liturgica istituzionale, a lungo invocata, irrompa puntuale con i suoi eccessi, con le sue drammatizzazioni, i suoi costumi, i suoi idoli scolpiti e rivestiti d’oro e argento, le sue processioni, i suoi scapolari, i suoi gruppi riservati, i suoi pellegrinaggi con tanto di mercimonio, gli ex-voto in cera e metalli, le reliquie-feticcio, il devozionismo tanto assetato di nuovi santi e nuovi miracoli…, i fuochi e luminarie sfarzose.
Sacro e profano, paganesimo e cristianesimo si intrecciano, si influenzano a vicenda, formano un inestricabile connubio. Certamente il risultato offre al volgo un’attrattiva maggiore rispetto alla sobrietà di una celebrazione liturgica, e in molti casi risulta anche più redditizio!