INTERVISTA AD ANDREA FILLORAMO
Dare un giudizio storico sul pontificato di Papa Francesco, mentre ancora esso è in pieno svolgimento è un compito impossibile. Si può esser certi di una cosa sola: il pontificato di questo Papa appare come un inedito, come un “sui generis” non facilmente riscontrabile e non sovrapponibile con gli altri papati. Sarà, quindi, il futuro a dirci quello che esso veramente è stato per la Chiesa Cattolica.
Sappiamo che non è sempre così per tutto ciò di cui è chiamata ad interessarsi la Storia. Ritengo che sia possibile oggi esprimere, pur con le dovute cautele, un giudizio, chiamiamolo pure storico, su quel pontificato, che è ancora in pieno svolgimento e, quindi, sullo stesso Papa Francesco, poiché, pur essendo ancora essi in “divenire”, fanno parte di un processo storico più ampio al quale è necessario ed è possibile fare riferimento. Se osserviamo bene, anche un sasso che è un oggetto inerte ha un suo processo diveniente. Sottoposto, infatti, al tempo e agli agenti atmosferici che a poco a poco lo disgregano: il giudizio su di esso si riferisce quindi all’aspetto che esso assume in quel determinato momento della sua esistenza.
In tal caso si tratterebbe, però, di un giudizio meramente soggettivo che può essere rigettato dagli altri, tant’è che, nei confronti di Papa Begoglio si contrappongono giudizi diversi, talvolta contradittori e, per questo, soggettivi.
Si, è vero come per tutti i giudizi! Ma teniamo conto che un giudizio per essere storico, cioè accertato, deve essere un’interpretazione autentica di fatti, risultanti da un’analisi razionale delle conoscenze che si posseggono, che mira ad una più ampia comprensione, che, non è subordinabile – è questo un rischio quando parliamo di un Papa – a nessuna metafisica, a nessuna trascendenza, a nessun pregiudizio pro o contro. Bisogna, quindi, guardare al Papa, pur nel rispetto della sua alta missione che ha da fare con la fede cattolica, come un qualsiasi altro personaggio presente o passato, con occhio, perciò “ laico”.
Certo che la Chiesa cattolica, come hai fatto osservare in diversi tuoi scritti, sta vivendo una crisi epocale e da questa anche la difficoltà di interpretare il pontificato di Papa Francesco.
Che la Chiesa cattolica sia in un momento difficile è indubbio, ma credo o meglio sono convinto che per la Chiesa mai ci sia stato un momento o un periodo facile. Chiunque senza difficoltà può osservare che essa istituzionalmente è il risultato di un processo lungo ed articolato iniziato molto tempo fa ma che talvolta o spesso è stato oscurato o interrotto durante i pontificati precedenti.
In che cosa, a tuo parere, la Chiesa è pervenuta in quello che chiami processo storico di cui Papa Francesco è, quindi, da considerare il punto finale ma sicuramente non ancora concluso?
Mi riferisco all’attuale tentativo di Papa Francesco, di distrutturare il modo di presentarsi della Chiesa nei vari secoli. Papa Francesco e questo è chiaro ad ogni osservatore, ha tentato e continua quotidianamente a tentare di abbandonare l’imponente realtà storica definibile come “cattolicesimo romano”, che immobilizza e impedisce di realizzare veramente il cambiamento. Egli vuole costruire una Chiesa nuova basata sui valori evangelici, ma è convinto che prima di mettere sù una casa nuova, occorre demolire totalmente quella vecchia, decadente. Nel frattempo, però, bisogna considerare quella casa da demolire un necessario provvisorio riparo. Da ciò quello che qualcuno considera un altalenare delle sue posizioni su alcune tematiche, quelle che qualcuno chiama “ contraddizioni” o “ passi all’indietro”.
Cosa si intende per cattolicesimo romano?
Per “cattolicesimo romano” si intende quella grande costruzione storica, teologica e giuridica del cristianesimo in cui la Chiesa, in millenni, partendo dal “dictatus Papae” di Gregorio VII, famoso documento redatto nel 1075 e forse anche da prima, ha edificato. Da allora la Chiesa si è data un proprio diritto interno, il diritto canonico, guardato al diritto romano come modello. Ha plasmato, quindi, gradualmente fino a tempi recenti, una complessa organizzazione gerarchica – diciamo pure antidemocratica – con precise norme interne, che regolano la vita di quella che Carl Schmitt chiama la “burocrazia di celibi” che fino ad oggi gestisce.
Quale apporto, quindi, Papa Francesco ha dato alla modernità?
Il tema del rapporto tra Chiesa e quella che intendiamo come modernità é uno dei più dibattuti e, probabilmente, irrisolti della nostra epoca. Esso pare continuamente polarizzato tra la tentazione, sempre possibile, di una “diluizione” del credo ecclesiale nella modernità, da un lato, e la contrapposizione, talvolta fino al rifiuto, dall’altro. Entrambe le “polarizzazioni” possono trovare giustificazioni e puntelli, ma restano ultimamente delle “non-risposte” all’importante questione. Non credo che Papa Francesco sia allettato dalla modernità in sé, anzi la respinge e la condanna quando essa crea separazioni, disuguaglianze e povertà, considerata quest’ultima un male estremo che egli combatte con tutte le sue forze.
In sintesi, quali sono in questa destrutturazione le novità apportate da Papa Francesco, tenendo conto di ciò che fino ad ora abbiamo detto?
Forse la novità più grande di Papa Francesco è quella di aver voluto affermare un’ecclesiologia che in molti punti fa a pugni con l’ecclesiologia elaborata dal Concilio di Trento che aveva ribadito la centralità della mediazione ecclesiastica in vista della salvezza. Aveva fissato il carattere gerarchico, unito e accentrato della Chiesa. Aveva affermato il diritto di controllare, condannare le posizioni che contrastavano con la formulazione ortodossa delle verità di fede. Papa Francesco – occorre affermarlo per non cadere in errore – mai, però, ha abolito il Concilio di Trento ma ha fatto ogni sforzo per stemperarne il rigore, in attesa forse – quando sarà possibile- di tempi più idonei per fare altri passi in avanti nell’innovazione sperata da tanti. Se non sarà lui, saranno sicuramente i suoi successori.
Nel processo innovativo della Chiesa un momento senz’altro importante è stato quello del Concilio Vaticano Secondo al quale tutti i pontefici precedenti hanno fatto riferimento e al quale fa riferimento continuamente anche Papa Francesco.
Certamente! il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), nelle intenzioni di Papa Giovanni XXIII che lo aveva convocato, doveva aprire un dialogo e operare un incontro, una rivoluzione che non è, però, avvenuta. E’ vero che tutti i Papi precedenti a Papa Francesco hanno fatto riferimento al Concilio, ma non sono riusciti a renderlo veramente operativo. Così è stato per Paolo VI e così per i suoi successori. Benedetto XVI, con il gradimento dei tradizionalisti anticonciliari, ribadì, però, che le grandi scelte del Vaticano II andavano lette e interpretate alla luce della tradizione precedente della Chiesa, quindi anche dell’ecclesiologia emersa dal Concilio di Trento e dal Vaticano I. Questa, quindi, è stata la non facile situazione ereditata da papa Francesco, che mette in gioco un interessante nuovo approccio per dare alla Chiesa una struttura sinodale, che “ descrive l’unità ecumenica non più con l’immagine dei cerchi concentrici attorno al centro, ma con l’immagine del poliedro, cioè di una realtà a molte facce, non un ‘puzzle’ messo insieme dall’esterno, ma un tutto e, come trattandosi di una pietra preziosa, un tutto che riflette la luce che lo colpisce in modo meravigliosamente molteplice”.