La canzone del complesso dei Nomadi fu eseguita più volte a suon di chitarra nelle chiese di tutt’Italia. La canzone ebbe uno strano destino fu censurata dalla Rai e trasmessa invece da Radio Vaticana. Lo scrive Roberto Beretta in un agile pamphlet «Cantavamo Dio è morto. Il 68 dei cattolici», Edizioni Piemme (2008).
Beretta a distanza di quarant’anni, prova a fare una sintesi del variegato 68 cattolico. E’ importante studiare il movimento culturale e sociale del 68 anche perchè ancora ne subiamo i frutti amari di quei “formidabili anni”.
Il testo di Beretta si divide in due parti: “Il Sessantotto cattolico. Il mito” (pars destruens) e il “Sessantotto cattolico. La nostalgia” (pars costruens).
La tesi di fondo del libro è che il movimento studentesco del 68 è nato da leader che erano tutti cattolici e la prima università occupata fu appunto quella della “Cattolica” di Milano, il 17 novembre del 1967. Inoltre ci tiene a precisare Beretta che il primo indumento-simbolo della contestazione non fu l’eskimo bensì un impermeabile da prete.
L’Università fondata da padre Agostino Gemelli fu occupata per ben quattro volte. Il testo racconta dettagliatamente gli avvenimenti, l’arringa di Mario Capanna, davanti all’Ateneo e l’anziano rettore Ezio Franceschini che cerca di reagire punto su punto agli attacchi del giovane Capanna. Beretta fa una breve biografia dei personaggi, a cominciare da Capanna, mandato a studiare a Milano da un paesino dell’Umbria con lettera di presentazione del vescovo monsignor Luigi Cicuttini e del prete locale. Era il migliore della parrocchia.
Beretta cita Filippo Gentiloni, il “vaticanista” del Manifesto che scrive: «[…]fra i protagonisti – leader o no – del 68, molti, moltissimi si erano formati all’ombra dei campanili e nelle varie associazioni cattoliche (scout, Acli, Azione Cattolica, Fuci, e altre sigle meno note)». Anzi spesso questi cattolici con meraviglia dei compagni, li scavalcano a “sinistra”. Il libro fa decine di nomi più o meno noti, protagonisti del 68. Il primo corteo studentesco organizzato dopo l’occupazione della Cattolica, «non andò a finire alla prefettura, o a Palazzo Marino sede del sindaco, o verso altre mete simboliche del potere civile o sociale: bensì – e non a caso – sotto le finestre dell’arcivescovo di Milano Giovanni Colombo».
Il 2° capitolo si occupa sul grado di democraticità del 68. Beretta descrive la tecnica movimentista delle cosiddette “assemblee” che non finivano mai, duravano fino a tarda notte, e poi quando la maggior parte degli studenti esausti abbandonavano il campo, una piccola minoranza di studenti, quelli politicamente più attivi, votava e prendeva le decisioni più importanti. Si comincia a sperimentare la dittatura della minoranza sulla maggioranza, una situazione che lo stesso rettore denuncerà, partecipando alle assemblee. «Tutti potevano parlare, sì, però chi teneva in pugno le decisioni erano pochissimi […] Dominavano le “minoranze attive” che avrebbero dovuto guidare le classi inferiori verso la conquista del potere».
Peraltro Franceschini non era uno di quei retrivi “baroni” dell’università contro cui si scagliavano gli studenti, era un riformista, ma non accettava le rivoluzioni del “tutto e subito”. Eppure Franceschini, passò come “cattivo” secondo i contestatori. Fu secondo Beretta «una vittima ‘bianca’ del Sessantotto».
Nel 3° capitolo si dà conto del «controquaresimale di Trento», un’altra mitica università, la facoltà di sociologia, dove vengono attirati da tutta Italia, 2500 studenti. Il direttore è Francesco Alberoni, che vuol far diventare la facoltà un “laboratorio” per la fusione delle due culture di massa italiana: quella cattolica e quella marxista. Qui i protagonisti sono tanti, si va dal marxista Mauro Rostagno al cattolico Marco Boato e poi Renato Curcio, e Margherita Cagol, entrambi cattolici.
Beretta racconta dell’episodio della cattedrale di Trento, dove viene interrotta un’omelia di un frate cappuccino che sta parlando delle persecuzioni dei cristiani in Unione Sovietica. L’omelia viene interrotto da uno studente (Paolo Sorbi) che grida: “Non è vero!”. Scoppia una tafferuglio tra i fedeli e il ragazzo. Ben presto il gesto «diventa “profetico”, destinato ad occupare per mesi le pagine dei giornali nazionali, offrendo al suo autore una sorta di tournèe di incontri e testimonianze in varie località non solo trentine». E’ sempre così capita ancora ai nostri giorni.
Naturalmente l’interruzione era organizzata, e poi tutte le altre, non c’era mai niente di spontaneo. Gli stessi protagonisti lo raccontano. La teologa progressista Adriana Zarri può affermare: «finalmente anche l’Italia si sta svegliando dal suo torpore religioso».
Sulla falsa “spontaneità” del 68 si occupa il 4° capitolo, trattando dell’occupazione del Duomo di Parma. Un gruppo di giovani, dispongono le sedie a cerchio in mezzo alla navata in “assemblea permanente”, leggendo e discutendo sulla povertà nella Chiesa. Così Parma diventa la bandiera del dissenso cattolico e l’occupazione del duomo genera un clamore che va oltre i confini nazionali.
Al 5° capitolo è protagonista la violenza. Beretta ricorda la “battaglia di Largo Gemelli” alla Cattolica, tra gli studenti che occupano l’università e la polizia che cerca di sgomberare l’ateneo. Uno spettacolo desolante, ben presto il disordine si diffonde al centro di Milano. Lo stesso scenario si ripete in altre occasioni, quando i manifestanti cercarono di assalire la sede de “Il Corriere della Sera”, in via Solferino. Si cercava di impedire l’uscita dei camion che trasportavano il quotidiano della “borghesia”. E nonostante tutto, per alcuni il Sessantotto non era violento. A questo punto Beretta racconta il legame del Sessantotto con il terrorismo. Trento è stata una delle“capitali” del Sessantotto cattolico, ma nello stesso tempo è stata anche una delle“culle” delle Brigate Rosse.
C’è un legame tra i due fenomeni? Per Boato No, ma per Renzo Gubert si: «La teorizzazione della violenza come metodo di cambiamento apparteneva già agli studenti trentini e a Boato stesso, anche se oggi lo nega. Le Brigate Rosse sono state la conseguente concretizzazione delle teorie elaborate nel Sessantotto a Trento. Curcio e gli altri si trasferirono a Milano perchè ritenevano che Trento fosse troppo piccola e periferica, non industrializzata, per far partire da lì la ‘rivoluzione’».
Beretta insiste sulla provenienza culturale e religiosa di Curcio e la compagna Cagol, soprattutto quest’ultima apparteneva ad una famiglia molto cattolica. Tra l’altro il padre, che morirà pochi mesi dopo l’uccisione della figlia, fino alla fine supplicava i parenti: “Ditemi che non è vero!”.
Il Pdup (Partito democratico di unità proletaria) di area estrema sinistra, aveva una forte percentuale di cattolici. Non si può negare che esista una sorta di “attrazione fatale” tra marxismo e cristianesimo, lo scriveva La Pira a Fanfani nel 1968. E Michele Serra ha notato: «la storia del terrorismo rosso è in larga parte anche storia di militanti di formazione cristiana». Mentre il cardinale Attilio Nicora ammetteva: «E’ onesto riconoscere che alcuni giovani delle Brigate Rosse sono nati nei nostri oratori». Sembra che i cattolici erano “più portati” di altri alla lotta armata. Beretta cita la rivista “Concilium” del 1966: «[…] non è possibile escludere a priori la legittimità di un ricorso temporaneo all’illegalità, alla violenza».
«“I cristiani del dissenso” per Giorgio Bocca, “quelli che vogliono il ‘vangelo in terra’, non conoscono tappe intermedie, non approdano a partiti laici e liberali, vanno di filato in un’altra chiesa, marxista leninista».
Per il sociologo Sabino Acquaviva, «alcune eventi religiosi hanno influito molto sulla dinamica della rivolta». Tra questi il sociologo annovera la secolarizzazione della Chiesa cattolica, e poi la perdita dei valori religiosi. Molti cristiani cercano la totalità religiosa in movimenti che promettono questa senso di totalità.
Il 6° capitolo del testo si domanda se il Sessantotto fu “figlio del Concilio”. Certo molti contestatori sono convinti di essere “figli del Concilio”, anzi di applicare sulle barricate e con gli striscioni la novità del Vaticano II.
Beretta a questo proposito fa parlare Raniero La Valle, che è convinto che il 68 cattolico interpreta le stesse rivendicazioni del Vaticano II. Del resto fa notare Beretta i leader studenteschi e gli esponenti del dissenso cattolico citano volentieri i testi conciliari e alcuni documenti dei Papi. Per loro alcuni brani erano rivoluzionari. C’era il fondato sospetto che questi signori non avessero letto i documenti conciliari. Citano il Concilio come altri citano Marx senza averlo letto.
Comunque Beretta si dilunga sull’interpretazione del Vaticano II da parte degli esponenti religiosi di allora. Cita Maritain, De Lubac, Enzo Bianchi, fino ad arrivare alla posizione di Paolo VI con i suoi ben sessantanove discorsi critici sulla contestazione nella Chiesa. Beretta fa riferimento ai pronunciamenti di Paolo VI in merito al Credo del popolo di Dio, richiamato da alcuni come il “nuovo Sillabo”. Infine la promulgazione dell’enciclica “Humanae vitae”, sulla sessualità umana, e qui Paolo VI diventa il nemico numero uno del cosiddetto progressismo all’interno della Chiesa e fuori.
Il 7° capitolo Beretta elenca i vari movimenti interni alla Chiesa, si va da Sant’Egidio a CL e pone una domanda: Il Sessantotto fu “inevitabile”?
Nella seconda parte (la pars costruens), il testo prende in esame il rapporto tra il cardinale Florit e l’Isolotto, l’esperienza di cattolici del dissenso di Firenze. Qui c’era il simbolo di una Chiesa “evangelica”, “povera” contro quella “gerarchica” e “anticonciliare”. Era come un faro l’Isolotto, scriverà Lidia Menapace, ex docente della Cattolica e poi senatrice di Rifondazione Comunista. Il libro evoca diversi nomi e comunità di quel momento, Interessanti alcune citazioni e prese di posizione come quella di don Mazzi che vedeva nel sessantotto una “nuova nascita”. I continui viaggi tra Milano e Firenze per condividere, partecipare e testimoniare. L’esperienza «dell’Isolotto non si può discutere, come si potrebbero discutere delle idee o delle opinioni». Praticamente questi signori stavano fondando un’altra Chiesa. Mi sembra doveroso fare una precisazione. Sostanzialmente questi cattolici del dissenso, chiamati sbrigativamente cattocomunisti, avevano la pretesa di trasformare, di rinnovare la Chiesa, e di conseguenza il mondo. Nella lunga storia della Chiesa ci sono sempre stati questi movimenti. Ma chi ha veramente rinnovato, riformato la Chiesa sono stati i Santi, pensate a S. Benedetto, a S. Francesco, a S. Domenico, S. Caterina e poi a quelli più vicini a noi, la schiera dei Santi sociali torinesi da S. Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo. Questi si che hanno trasformato la Chiesa e il mondo.
Beretta affronta la posizione di don Lorenzo Milani, anche per il giornalista di Avvenire, sembra che il sacerdote di Barbiana sia stato strumentalizzato da parte di queste frange progressiste della Chiesa. Don Milani spesso viene piegato agli usi della contestazione ecclesiale. Don Milani sostiene Beretta, aveva sempre obbedito alla Chiesa e ai suoi superiori gerarchici.
Non è stato così per tanti altri preti che hanno gettato la tonaca all’aria. Il primo nemico era in casa, lo aveva capito lo stesso Paolo VI in un discorso nel settembre 1969: «le difficoltà maggiori oggi sorgono dal seno stesso (della Chiesa), i dispiaceri più pungenti le sono dati dalla indocilità e dall’infedeltà di certi suoi ministri e di alcune sue anime consacrate[…]».
Una potente “arma impropria” della contestazione cattolica fu la Liturgia. Attraverso il passaggio della messa in latino a quelle in lingua nazionale si fece passar di tutto, messe “beat”, “yè-yè”, “hippy”, con chitarre elettriche e tanto altro. In tanti riti sperimentali si leggevano brani di Camillo Torres, il prete combattente del Sudamerica, invece dei testi biblici. La messa doveva essere “democratica”, si celebrava negli appartamenti, si usavano strumenti “normali”, al posto di quelli sacri (tavoli, bicchieri, giacche e cravatte). Si doveva eliminare il rito e si poneva l’accento sulla “creatività”. Perfino don Giuseppe Dossetti ad un certo punto si scandalizzò della deriva delle sperimentazioni.
Infatti tra le derive liturgiche operate dai contestatori ci fu il boom dello spontaneismo e dei gruppi. Qualcuno ha censito fino a duemila “gruppi giovanili spontanei” esistenti in tutta la penisola. In questi gruppi, nonostante l’origine evangelica, era «prevalente l’impegno politico», soprattutto collocato a sinistra contro il capitalismo, l’imperialismo e l’integrismo. I loro maestri ben presto diventano Marx e Freud. I loro ideali Che Guevara, Mao Tze Tung. «Il vento del sessantotto si era infiltrato persino nei seminari». E qui non mancano i numerosi esempi di derive rivoluzionari negli istituti religiosi.
A poco a poco si arriva al punto che il sacerdote non sa più che cosa è. E quindi vuole reinventarsi. La sfiducia nella dottrina e nella tradizione assale gli uomini di Chiesa. Così nascono i preti “critici”, “solidali”, l’obbedienza sparisce e si fa un ricorso ingenuo e servile ai surrogati delle ideologie.
In questa situazione di sfiducia e di disorientamento è ovvio che le defezioni sacerdotali aumentano, se tra il 1928 e il 1958 si registrano in Italia tra sei e novemila crisi sacerdotali. Tra il 1963 e il 1968 le domande di dispensa s’impennano sopra i settemila. Beretta nota pure che in questo periodo, c’è un forte aumento di saggi sulla “crisi del prete” e peraltro non si tratta di case editrici laiche, pronte a cavalcare la tigre del disorientamento ecclesiale, ma di case editrici cattoliche.
Nel 4° capitolo Beretta racconta le colpe degli intellettuali, dei teologi, che hanno prodotto il nuovo Catechismo olandese. Intellettuali che inneggiavano al Vietnam, al terzomondismo contro l’imperialismo americano. Interessante la scheda di Beretta su Camillo Torres, il prete col mitra e quindi con tutte le giustificazioni morali da parte della “Teologia della Liberazione”, nata in America Latina. Sarebbe interessante soffermarsi sui preti combattenti, che trovavano nel Vangelo, la giustificazione per operare nella società attraverso la lotta armata. Anche qui Beretta racconta fatti e nomi di quel tempo. Gli ultimi capitoli raccontano dei tanti ex sessantottini che nonostante i loro trascorsi fanno carriera e occupano posti importanti nella società. Non a caso il filosofo torinese Augusto Del Noce «aveva segnalato il Sessantotto come rivoluzione intraborghese, che marcava il passaggio dalla vecchia classe dei borghesi con valori cattolici a un neo-capitalismo selvaggio». Sono numerosi gli ex del sacco a pelo che ora “occupano”, profumatamente pagati, i posti borghesi un tempo violentemente aborriti.
DOMENICO BONVEGNA
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