Chi è Carmine Crocco? Ce lo spiega il professore Tommaso Pedio, in «Come divenni brigante», di Carmine Crocco, Laicata Editore (1964, Manduria Taranto). Nacque a Rionero in Volture, il 5 giugno 1830, pastore, soprannominato “Donatelli”, si arruolo nell’esercito borbonico, disertò nel 1852, costituì con Ninco Nanco una banda armata. Arrestato e condannato, ma ben presto evase dal carcere e nel 1860 aderì al movimento insurrezionale garibaldino, ben presto ritornò alla vita di fuorilegge, nel 1861, formando una banda armata, di soldati sbandati, disertori e malcontenti.
Il libro dopo un’introduzione di Pedio, raccoglie l’autobiografia di Carmine Crocco.
Nel 1903, quando fu annunziata la pubblicazione della autobiografia, molti dei superstiti di quei galantuomini che, direttamente o indirettamente, erano stati coinvolti nei fatti svoltisi in Basilicata tra il 1860 ed il 1864, erano abbastanza preoccupati. Temevano che il “sepoltovivo”, adesso poteva cominciare a fare i nomi di quelli che lo avevano incoraggiato, favorito, sorretto, sovvenzionato. Che cosa avrebbe scritto il generale brigante «nei confronti della classe dirigente lucana i cui maggiori esponenti, pur schieratesi con il movimento liberale, ad eccezione di pochi, sostanzialmente contribuito a favorire e ad alimentare il brigantaggio».
Il vecchio pastore semianalfabeta di Rionero in Volture, che aveva terrorizzato un’intera regione portando ovunque terrore e la desolazione dell’assassino crudele e vendicativo, ora «magnanimo e generoso, non rivelò i nomi di coloro che, sin dall’ottobre del 1860, avevano promosso in Basilicata la resistenza armata contro il nuovo regime […]».
La lettura dell’autobiografia di Crocco «non stanca, anzi appassiona, scrisse Basilide del Zio, contiene pagine splendide, episodi sorprendenti, considerazioni sociali e più di tutto ironia lenta, continua, caustica…pel caduto governo borbonico».
Tuttavia la ricostruzione dei fatti porta pochi contributi per una vera storia del brigantaggio in Lucania, anche perché Crocco spesso mentisce in molti punti, ed esagerando in altri.
Sostanzialmente Crocco resta un brigante, anche se comprese «l’enorme vantaggio che mi sarebbe venuto facendomi banditore d’una lotta reazionaria – scrive nelle Memorie – Seppi in breve accaparrarmi tutti coloro ai quali la rivoluzione era stata di danno, dai più sfegatati borbonici, ai mellifui liberali, dagli impiegati, che avevano perduto il lauto stipendio, ai preti e ai frati, resi furibondi dalla legge contro i possessi del clero».
Pedio sintetizza egregiamente il pensiero di Crocco, nonostante l’apparente entusiasmo, il Crocco, sente di lottare per una causa perduta. «Promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza di impadronirsi degli armenti affidati alla loro custodia […]». Alla fine sostanzialmente scrive Carmine Crocco, «a poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m’ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria».
In questa biografia Crocco, intende smentire quella leggenda che ne hanno fatto come di un essere bestiale e feroce per il quale era inconcepibile la pietà e il perdono. Non credo che ci sia riuscito. L’autobiografia è composta di otto capitoli, nell’appendice si possono leggere il Verbale di interrogatorio, reso da Crocco il 3 e 4 agosto 1872, preso dall’Archivio di Stato di Potenza.
Il I° capitolo descrive la sua infanzia a Rionero, il suo forte legame con la madre, disgraziatamente interrotto da quel tragico episodio del cane che venne ferito mortalmente da una randellata. Poi l’intervento del padrone del cane che infierì violentemente contro la povera donna che da quel momento rimase menomata fino a diventare pazza. Da questo momento la vita di Carmine cambia bruscamente, cresce in lui un odio forte nei confronti di tutti i ricchi, possidenti e cosiddetti galantuomini.
Nel II° capitolo, racconta il suo primo delitto, commesso contro il signorotto che aveva cercato di disonorare una sua sorella. Il III° capitolo comincia a raccontare la sua vita da brigante politico. Crocco riesce a descrivere i luoghi della sua vita di fuorilegge, i terreni eminentemente boschivo, le campagne, le montagne. Cominciano le sue azioni di assalti e di guerriglia, non sempre ricorda tutto precisamente.
Il IV° e il V° capitolo sono quelli dove racconta le sue intense battaglie contro l’esercito regolare sardo piemontese e soprattutto contro la Guardia Nazionale. Prima di ogni scontro il generale brigante abitualmente scrive al sindaco o chi per lui comanda il paese da conquistare. E’ interessante la descrizione dei suoi “briganti”, ci tiene a precisare che non tutti erano pastorelli. Il suo piccolo esercito aveva quadri completi, erano presenti: «un capitano, un luogotenente, un medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico. Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori […]». Anche se lui preferiva combattenti provenienti dal ceto contadino e non studenti.
Il V° capitolo affronta il suo rapporto con il generale spagnolo Josè Borjes, naturalmente dal suo punto di vista. «Quest’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poiché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto». Ecco sostanzialmente qui ci sono tutte le motivazioni della sconfitta della reazione legittimista del Mezzogiorno d’Italia.
«Era un povero illuso – scrive Crocco – venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione […]». Borjes nelle sue memorie è stato esplicito quando ha capito che difficilmente sarebbe riuscito a portare a termine la missione che gli ha affidato il generale Clary. Mi manca un mio esercito di 300 o 400 uomini, allora si che si poteva tentare di conquistare il Regno e consegnarlo a Francesco II.
Comunque Crocco nelle sue risposte dell’interrogatorio racconta che il generale spagnolo doveva venire in suo aiuto con un suo corpo di truppe di sette od ottomila uomini.
Una volta che Borjes ha lasciato il territorio lucano, Carmine Crocco continua la sua guerra banditesca con attacchi isolati contro gli agguerriti eserciti di Pallavicini. «Attacchi parziali n’ebbi a centinaia, non mi ricordo le date ed i luoghi con precisione, poiché in quei giorni non prendevo appunti […] espongo, perciò, senz’ordine cronologico, quanto mi si affaccia alla memoria lasciando da parte il futile ed il superfluo».
Negli ultimi capitoli Crocco descrive la sua fuga dai boschi lucani e poi la sua prigionia.
DOMENICO BONVEGNA
domenico_bonvegna@libero.it