CHIESA & VERITA’: nei miei recenti articoli sulla vita che si svolgeva nei seminari prima del Concilio Vaticano Secondo e per molto tempo dopo, fino cioè agli anni 70, ho considerato solo pochi aspetti e non era nelle mie intenzioni dilungarmi più di tanto. Se l’avessi fatto, sarei andato, infatti, al di là di quanto richiesto dall’email posta allora in premessa; tuttavia i post in commento che ho letto in Facebook mi obbligano ad allargare ma non molto il raggio delle mie considerazioni.
di ANDREA FILLORAMO
Nei miei recenti articoli sulla vita che si svolgeva nei seminari prima del Concilio Vaticano Secondo e per molto tempo dopo, fino cioè agli anni 70, ho considerato solo pochi aspetti e non era nelle mie intenzioni dilungarmi più di tanto. Se l’avessi fatto, sarei andato, infatti, al di là di quanto richiesto dall’email posta allora in premessa; tuttavia i post in commento che ho letto in Facebook mi obbligano ad allargare ma non molto il raggio delle mie considerazioni.
Mi limito a fare una semplice riflessione: non posso non pensare alle molte generazioni di preti che in quegli anni, hanno avuto nei seminari una formazione disumanizzante, antipedagogica, innaturale, anacronistica, in cui vigeva una violenza educativa – diciamolo pure – non riscontrabile neppure nei più rigidi collegi, vissuta da quei pochi che sono giunti al sacerdozio nell’ inconsapevolezza delle gravi disfunzioni da essa causate che avrebbero condizionato e limitato – come ritengo sia avvenuto e avviene – il loro ministero. Non c’è, quindi, oggi da stupirsi dei molti preti “pedofili”, dei preti “puttanieri”, “omosessuali”, “mestieranti”, fra i quali come sappiamo ci sono anche cardinali e vescovi, di cui la cronaca ci informa ogni giorno di più, che hanno avuto quella formazione.
In molti preti l’educazione repressiva avuta negli anni giovanili ha prodotto in tutta la vita sofferenze, squilibri, forse anche ossessioni, che normalmente sono state superate, se così si può dire, in chiave ascetico-sacrificale. Quanti eroismi di dedizione totale sono il frutto di tali macerazioni psichiche! E’ questo l’aspetto positivo che scaturisce dalle mutilazioni dell’anima e del corpo ma in alcuni ciò, invece, ha indotto a comportamenti distruttivi.
Da evidenziare, infatti, che ai preti fin dai primi anni del seminario – e non so se ancora ciò accade – veniva inculcato il disprezzo per il corpo, in particolare per la sessualità, e la fobia della donna. Certo non sono più attuali gli eccessi preconciliari. Il celibato non è più considerato, come avveniva fino alla riforma conciliare, una condizione di vita superiore tuttavia esso rimane la condizione sine qua non per essere ordinato prete. La veste talare capace di nascondere il corpo e di rendere incerta la identità la portano ormai in pochi. I seminaristi non sono più costretti a spogliarsi solo dopo essere entrati nel proprio letto e a rivestirsi prima di uscirne al mattino.
Quella rozzezza medioevale è stata sostituita probabilmente da metodi più sottili ma ugualmente repressivi. E soprattutto resta la sostanza. E’ in queste profondità esistenziali e teologiche che si annida il cancro della disumanizzazione, che significa privare l’uomo-prete delle sue caratteristiche essenziali, ovvero della possibilità di esprimere la propria personalità, costringere a sottostare ad un sistema che vieta l’espandersi delle potenzialità umane.
Non sono il primo a sollevare questi problemi della disumanizzazione dei preti dovuti all’educazione ricevuta, Già negli anni 70 Rulla aveva sottolineato le conseguenze negative di certe disfunzioni affettive nella struttura di personalità di quanti intraprendevano la vita sacerdotale. In particolare egli aveva osservato che le loro difficoltà psicoaffettive non erano un fatto episodico o accidentale ma riguardavano “inconsistenze psichiche centrali” che mettevano a nudo un certo contrasto – riscontrabile anche negli anni successivi alla formazione di base – tra i valori proclamati e le motivazioni subconscie del soggetto.
Anche oggi, alcuni studi clinici più recenti effettuati tra il clero confermano tali affermazioni, soprattutto in riferimento ai disturbi dell’area affettiva e delle relazioni con la gente. In effetti, quanti vivono un’affettività poco integrata tendono ad avere una cattiva qualità di vita e uno stile interpersonale ambiguo e inadeguato con la gente.
Le conseguenze saranno ancora più negative se il soggetto non è consapevole degli aspetti trasferenziali o comunque non è preparato a integrare i propri bisogni o i propri vissuti intrapsichici con quelli dell’ambiente relazionale con cui lavora pastoralmente.
Quando non riesce a stabilire chiari confini nel suo modo di essere e di amare, attiverà relazioni disfunzionali e confusive che generano malessere e disorientamento dentro di sé e attorno a sé.