Domenica scorsa ho assistito alla S. Messa in Tv celebrata da Papa Francesco per la festa della Divina Misericordia presso la Chiesa di Santo Spirito in Sassia a Roma. Destino vuole che proprio in quel momento stavo leggendo il 6° capitolo “Miseria e misericordia”, del libro di Rodney Stark, “Il trionfo del Cristianesimo”, pubblicato da Lindau (2012).
Il testo di Stark si interroga come la religione di Gesù ha cambiato la storia dell’uomo ed è diventata la più diffusa al mondo. Nelle pagine del 6° capitolo troviamo delle osservazioni interessanti sul comportamento dei primi cristiani nel mondo pagano che stava per scomparire. Il sociologo americano sottolinea le risposte della fede cristiana alle varie sofferenze e miserie del tempo. Stark ironizza sugli atei che amano ridicolizzare la fede cristiana perchè promette che le sofferenze di questa vita saranno ricompensate nell’altra. Per questi atei è una pia illusione.
Invece Stark puntualizza, che il Cristianesimo, «rende la vita migliore qui e ora» e non solo nell’aldilà. Tra l’altro uno studio sulle antiche lapidi tombali si stabilisce che i primi cristiani vivevano più a lungo dei loro contemporanei pagani. «Ciò dimostra che i cristiani ebbero una migliore qualità di vita».
Nel testo Stark dopo aver descritto come si svolgeva la vita sociale nelle città antiche e in particolare in quelle romane. Frequentemente era presente la sporcizia, la perenne mancanza di acqua, i crimini e i disordini sempre presenti per la vita miserevole. Faceva notare Stark che la Roma di allora «era infestata da ladri d’appartamento, borsaioli, piccoli ladruncoli e rapinatori».
Infine c’erano le malattie, le persone tendevano a morire molto di più di altri periodi storici, i malanni e le afflizioni fisiche erano probabilmente all’ordine del giorno. Le donne soffrivano molto a causa della maternità e alle diffuse pratiche abortive svolte con metodi brutali e non igienici.
«In mezzo allo squallore, alla miseria, alla malattia e all’anonimato delle antiche città, il cristianesimo creò un’isola di misericordia e sicurezza». Stark non manca di citare le celebri parole di Gesù dal Vangelo di Matteo: «Perchè ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…» (Mt 25,35-36,40) e poi quelle dell’apostolo Giacomo che esprime concetti simili (2,15-17).
Invece nel mondo pagano, soprattutto tra i filosofi, sottolinea Stark, «la misericordia era considerata un difetto del carattere e la pietà un’emozione patologica: siccome la misericordia include il dono di un aiuto o di un sollievo immeritato, essa è considerata contraria alla giustizia».
Per il cristianesimo invece la misericordia era una delle principali virtù. Il Dio misericordioso richiede agli uomini di essere misericordiosi, per i pagani questo era bestemmia. Amarsi a vicenda, é un «un principio veramente rivoluzionario era che l’amore cristiano e la carità dovevano estendersi oltre i confini della famiglia e persino della congregazione, per rivolgersi a tutti i bisognosi». Per i cristiani bisognava fare del bene a tutti, non solo ai propri fratelli. Stark chiarisce che queste non erano solo belle parole per i primi cristiani. Su questo Paul Johnson, scrive: «i cristiani […] gestivano uno stato sociale in miniatura all’interno di un impero che in gran parte era privo di servizi sociali». Poi Tertulliano spiega come questo stato sociale funzionava.
Tuttavia per Stark tutte le attività caritative dei primi cristiani erano possibili, «solo perchè il cristianesimo creò le congregazioni, una vera e propria comunità di credenti che organizzavano la loro vita intorno alla loro affiliazione religiosa».
Sostanzialmente tutto questo proteggeva i cristiani, quando arrivava qualche calamità, c’erano persone che si prendevano cura dei bisognosi, avevano quel preciso compito. Come è sottolineato nelle Costituzioni Apostoliche, «Ogni congregazione aveva decani il cui compito principale era il sostegno dei malati, degli infermi, dei poveri e dei disabili».
Rodney Stark, illustra gli immensi benefici che la vita cristiana ha saputo dare alle due grandi piaghe pestilenziali che colpirono l’impero: la prima nell’anno 165 d.C., una devastante epidemia che si diffuse durante il regno di Marco Aurelio. Sembra che si sia trattato del vaiolo, un morbo che si dimostrò letale, come tutte le malattie contagiose. E mentre oggi stiamo combattendo la nostra battaglia contro il coronavirus, è straordinariamente interessante leggere ripercorrere gli eventi che hanno colpito le popolazioni di allora.
In quindici anni di diffusione dell’epidemia, un quarto e forse un terzo della popolazione rimase uccisa dal morbo. «Al culmine dell’epidemia – scrive Stark – la mortalità era così elevata in molte città che l’imperatore Marco Aurelio (che successivamente morì di questa malattia) scrisse di carovane di carri e vagoni che portavano via i morti».
Dopo un secolo arrivò un’altra piaga, sempre nel mondo greco-romano. Da ogni parte familiari, amici e vicini morivano in modo orribile. Nessuno sapeva come curare le persone colpite. Durante la prima piaga, il famoso medico classico Galeno, fuggi da Roma, per rifugiarsi nella casa di campagna e qui rimase finchè il pericolo non cessò.
Chi invece non poteva fuggire, l’unica alternativa, «era cercare di evitare ogni contatto con i malati, perché ci si era resi conto che la malattia era contagiosa». Praticamente quello che stiamo facendo noi su indicazione dei nostri governanti con il coronavirus. Altro che pratiche medievali, come hanno scritto certi giornalisti, abbiamo attuato pratiche da tardo impero romano.
Stark continua nella sua descrizione di come i romani hanno affrontato il letale virus,«le persone venivano spesso buttate in mezzo alla strada, dove i morti e i moribondi erano ammucchiati», noi non siamo arrivati a questo, grazie alle nostre strutture sanitarie efficienti, ma in Cina si è assistito alle stesse scene di duemila anni fa. Stark per supportare la sua descrizione cita il vescovo Dionisio che descriveva la seconda epidemia (del 251 d.C.): «alle prime avvisaglie della malattia, i [pagani] cacciavano i sofferenti e fuggivano via dai loro cari, scaraventandoli in strada prima che fossero morti e trattavano i cadaveri insepolti come immondizie, sperando in questo modo di scongiurare la diffusione e il contagio della malattia mortale […]».
Stark fa emergere la drammaticità di quei momenti, cercando di descrivere lo stato d’animo dei parenti: «deve aver causato enorme dolore e afflizione dover abbandonare le persone amate in quel modo. Ma cos’altro potevano fare?».
Un po’ come oggi. Tra l’altro, i romani di allora non potevano neanche pregare gli dei, anche perchè credevano che gli dei non si curassero minimamente di loro. E lo sottolinea bene Tucidite quando parla della piaga di Atene: «Morivano senza nessuno intorno che si curasse di loro, e davvero c’erano molte case in cui gli abitanti morivano per mancanze di cure […] Quanto agli dei – scrive Tucidite – sembrava del tutto uguale venerarli o meno, quando uno vedeva i buoni e i cattivi morire in modo indiscriminato». Per questo motivo i filosofi classici davano la colpa della morte al destino. «Mentre una piaga mortifera devastava l’impero […] i sofisti cianciavano di esaurimento della virtù in un mondo che invecchia». La Storia si ripete in maniera eccezionale.
Di fronte a tutto questo i cristiani affermavano di avere le risposte giuste. Intanto credevano che la morte non fosse la fine e che la vita fosse un tempo di prova. A questo proposito Stark cita Cipriano, vescovo di Cartagine, presente nella seconda piaga, dove spiega al suo popolo che il virtuoso non ha niente da temere.
Non solo ma «i cristiani onorano l’obbligo di prendersi cura dei malati, invece di abbandonarli, e dunque salvarono moltissime vite umane!».
Ancora una lettera pastorale del vescovo Dionisio inviata ai suoi membri, loda coloro che avevano curato i malati e soprattutto quelli che avevano perso la vita nel fare questo. «Sprezzanti del pericolo, si sono fatti carico dei malati[…] attirando su di sé la malattia dei loro prossimi e accettando caritatevolmente i loro dolori. Molti, accudendo e curando altre persone, hanno trasferito la morte di queste su di sé, morendo al posto loro[…]». Penso ai tanti medici che hanno perso la vita per curare i malati, ma anche ai sacerdoti morti che non si sono risparmiati per assistere gli ammalati come medici delle anime.
Alla fine il sociologo americano citando un noto studio, “La peste nella storia” di William H. McNeill, scrive che probabilmente bastavano poche ed elementari cure, come garantire cibo e acqua, per salvare tante persone. Pare che i cristiani abbiamo sensibilmente contribuito a ridurre la mortalità di almeno due terzi. «Il fatto che molti cristiani colpiti sopravvivevano non passava inosservato, conferendo grande credibilità alla ‘fucina di miracoli’ cristiana». Tuttavia Stark fa emergere chiaramente che i cristiani in larga parte sarebbero cresciuti in modo sostanziale. «Avendo fondato delle comunità di misericordia e mutuo soccorso, i cristiani vivevano davvero un’esistenza più lunga e migliore». Secondo Stark, i cristiani vivevano più a lungo e trascorrevano un’esistenza più confortevole perché imitavano Cristo.
Stark racconta che quando l’imperatore Giuliano esortava il sommo sacerdote della Galizia a distribuire grano e vino ai poveri, lamentando che gli empi cristiani lo fanno. Queste proposte non ottengono risposta, perché i sacerdoti pagani non erano abituati e non esistevano dottrine o pratiche per fare opere caritatevoli. Sostanzialmente scrive Stark, «un sacerdote pagano non poteva predicare che le persone con poco spirito di carità rischiavano la salvezza». Per i pagani non esisteva alcuna salvezza, alcuna via d’uscita dalla mortalità. «Mentre i cristiani credevano nella vita eterna, i pagani credevano al massimo in un’esistenza poco attraente nell’oltretomba». La fede fa la differenza, uno come Galeno, non poteva rimanere a Roma era impossibile.
DOMENICO BONVEGNA
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