Una donna ogni tre giorni viene uccisa per mano di un uomo che conosce. Viene uccisa per le sue scelte di libertà. Le donne sono in pericolo in una relazione violenta e un momento potenzialmente rischioso è quello in cui decidono di interromperla.
Ancora oggi sfogliando i giornali si possono leggere affermazioni come queste, legate anche agli ultimi femminicidi di Caccamo (Pa) e Carmagnola (To). La violenza contro le donne attraversa l’Italia, letteralmente: “Secondo una prima ipotesi lui non avrebbe accettato la possibilità di una separazione”; “ancora una tragedia”; “uccise per delirio di gelosia”; “omicidio, il movente: raptus di gelosia” ;“dramma familiare: uccide moglie e figlia e poi tenta il suicidio”.
Negli ultimi anni molto è cambiato nel modo in cui raccontiamo la violenza quando accade. E’ il lavoro dei centri antiviolenza, di attiviste e attivisti, di giornaliste e giornalisti impegnati, ma alcuni giornali ancora troppo spesso liquidano i femminicidi come un affare di famiglia, un atto di follia, un imprevisto (o al contrario qualcosa di prevedibile) in uno schema predefinito.
La gelosia, il troppo amore o il dolore per la fine di una relazione non costituiscono il movente del reato di omicidio. Il movente nei casi di femminicidio è la violenza maschile contro le donne, la più estrema.
Ancora di più ciò che ci indigna è la morbosa determinazione da parte di alcuni giornalisti/e a scavare nella vita delle vittime, a dettagliare con foto e dichiarazioni di vicini e familiari le ultime ore di vita di donne che non potranno mai dare la propria versione dei fatti.
Orientare l’opinione pubblica sul tema della violenza contro le donne è una inevitabile responsabilità dei media. Un femminicidio non può essere giustificato da un raptus di gelosia o dal troppo dolore per la fine di una relazione. Questo tipo di narrazione mette in atto un comportamento di vittimizzazione secondaria. La donna viene ritenuta responsabile della violenza che subisce. Il gesto viene ‘giustificato’ dal/dalla cronista e appare, quindi, socialmente ‘accettato e accettabile’.
Dopo il Manifesto di Venezia, anche l’articolo 5 bis al Testo Unico dei doveri del giornalista dal 1° gennaio 2021 raccomanda di prestare attenzione ad evitare espressioni e immagini lesive della dignità della persona; di adottare un linguaggio rispettoso corretto e consapevole; di attenersi all’essenzialità della notizia evitando la spettacolarizzazione della violenza; di non usare termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso o lo giustifichino.
Ognuno di noi può fare qualcosa.
Proponiamo incontri e confronti con giornalisti/e, redattori, titolisti al fine di una narrazione della violenza di genere che sia rispettosa delle vittime e che tracci un cambiamento culturale.
Chiediamo l’assunzione di responsabilità di tutte e tutti per scardinare il sistema culturale che ancora permette agli uomini di agire potere e possesso sulle donne.