Il quotidiano Il Foglio ha pubblicato un interessante intervista di Giulio Meotti, alla linguista francese Yana Grinshpun, (“I nuovi conformisti”) che ha scritto un lungo saggio, dove fa il parallelo fra l’ideologia sovietica e certi meccanismi oggi in vigore in occidente (leggi “dittatura del relativismo”).
La scrittrice di origine russa, che insegna all’Università Sorbonne Nouvelle di Parigi, si stupisce come certi suoi colleghi accademici si schierano con “i nuovi tiranni di genere e razza che stanno spiegando alle persone chi sono, come dovrebbero sentirsi e comportarsi, come dovrebbero parlare e scrivere”. Oggi questi accademici si comportano come quelli sovietici, che volevano creare “l’uomo nuovo”, dove tutti erano uguali, felici e contenti, senza discriminazioni di classe, sesso e razza. L’Unione Sovietica non esiste più, “ma la sua sedicesima repubblica sovietica francese (come il Kgb chiamava scherzosamente la Francia) sta per adottare un’ideologia pericolosa, coercitiva, moralizzante e punitiva come quella da cui siamo fuggiti circa trent’anni fa”.
La Grinshpun, sostiene che, “Oggi il marxismo-leninismo è sostituito da parole che designano ideologie postmoderne come ‘genere’, ‘razza’, ‘antirazzismo’, ‘neofemminismo’, ‘razzismo sistemico’, ‘diritti umani’”. Ricorda gli ammonimenti all’Occidente del grande dissidente russo Vladimir Bukovskij, “non commettete gli stessi errori: stiamo vivendo una seconda Guerra fredda, con una nuova generazione di utopie coercitive che si sforzano di cambiare la nostra cultura”. Oggi la nuova ideologia totalitaria ha un nuovo gergo, “diversità culturale”, “diritto di riproduzione”, “conformità politica”.
E paradossalmente Grinshpun ha scoperto che molti intellettuali brandiscono le parole delle nuove ideologie totalitarie: ‘parità’, ‘inclusivismo’, ‘convivenza’, ‘minoranze oppresse’, ‘liberazione delle donne’. Questa mentalità relativista e radicale che invita ad uscire dall’eterosessualità, a distruggere le centrali nucleari, a mangiare cibo biologico, a rispettare la Madre Terra, a negare la differenza tra i sessi, porterà alla fine della cultura occidentale come la conosciamo. Per la docente francese, “la dittatura delle minoranze sessuali, che si presentano come oppresse, sta prendendo piede nel mondo della cultura e dell’istruzione”.
Della dittatura del relativismo radicale che sta distruggendo quello che rimane dell’Occidente se ne occupa il libro del professore Eugenio Capozzi, “L’autodistruzione dell’Occidente”, col sottotitolo: “dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo” (Historica/Giubilei Regnani 2021, pagine 231, 17 euro). L’ultimo capitolo, il 6° (L’epoca post-umana: dalle democrazie liberali all’utopia diversitaria)
Il docente napoletano affronta le varie crisi culturali emerse nel trentennio della cosiddetta “guerra civile europea”, che si è conclusa con la vittoria delle superpotenze degli Usa e dell’Unione Sovietica. Successivamente i popoli in via di decolonizzazione rifiutano l’eredità culturale europea, i valori di riferimento sono condannati come imposizioni imperialistiche, come strumenti di dominio e di sfruttamento. Questo sentimento anti-occidentale per Capozzi, veniva “fatto proprio, prima che dalle classi dirigenti dei popoli decolonizzati, innanzitutto dalle élites intellettuali della stessa Europa, e in parte anche da quelle del mondo angloamericano”. Proprio in questo periodo, “la cultura ‘alta’” occidentale elaborava una visione del mondo, che metteva insieme tutte le ideologie dell’otto-novecento, dal nazionalismo, al socialismo, ai ‘fascismi’, per generare odio per l’Occidente, per la sua cultura e la sua storia, colpevole di aver assoggettato con la forza il resto del mondo, discriminando culture, costumi, tradizioni, stili di vita differenti.
Pertanto, dalla metà del Novecento, si diffondeva nella filosofia, nella sociologia, nell’antropologia, “la dottrina del relativismo culturale, intesa come un vero e proprio auto da fè”. “Essa prende – scrive Capozzi – la forma di una autocritica radicale nei confronti delle ‘vittime’ dell’imperialismo e di una promessa di espiazione dei ‘peccati’ storici attraverso l’impegno per la liberazione dei dominati, e la lotta a tutto campo alle discriminazioni causate dall’imporsi del ‘canone’ occidentale”.
Intanto i “diritti umani”, veicolati dall’Onu e dalla Dichiarazione, “venivano liquidati dall’intellighenzia occidentale post-bellica progressista-comunista, “compagna di strada” dei comunisti o comunque votata all’ideale di una rivoluzione mondiale anti-imperialista, come principi ipocriti, non rispettosi della diversità culturale […]”.
Persiste pertanto l’attacco alla cultura e ai valori dell’Occidente, sia da parte degli intellettuali che la classe politica mettono sotto accusa le loro stesse società, le proprie identità, assegnando a tutte le altre culture, tradizioni, costumi, sistemi giuridici, modelli economici, lo stesso valore. L’ideale prospettato era la scomparsa di qualsiasi scopo, di qualsiasi idea condivisa.
Inoltre, gli intellettuali di punta erano convinti che l’Occidente “per espiare le proprie colpe, per rigenerarsi, si volgeva verso tutte culture ‘altre’, considerate ancora vergini, depositarie di una saggezza che l’Occidente aveva perduto”. Si mettevano così le basi per l’”utopia diversitaria”: la mitologizzazione del “diverso” in quanto tale, del ‘marginale’, del ‘divergente’, del selvaggio rispetto ai modelli di ragione ed etica consolidata in quelle società”.
A partire da questa svolta secondo Capozzi, comincia la “dittatura del relativismo”, di cui avrebbe parlato Joseph Ratzinger. Una nuova ideologia che si sarebbe sviluppata in diversi filoni tematici. Vediamo quali.
Intanto negli anni ’60, troviamo milioni di giovani, chiamati (baby boomers) cresciuti in pace e nel benessere, nella sicurezza sociale, istruiti, con il più alto grado possibile di consumi e con il divertimento assicurato. Siamo nell’epoca delle proteste in America contro la guerra nel Vietnam e delle proteste studentesche in Europa. E’ il cosiddetto Sessantotto, con la nuova visione del mondo, incentrata sulla liberazione dall’eredità della cultura, dei costumi, delle convenzioni, della religione, delle istituzioni sociali e politiche, della mentalità occidentale. Una liberazione che doveva portare “a una vita libera dagli obblighi e catene, a un Eden ritrovato di innocenza totale, di ‘comunione ‘naturale’, di assenza di conflitti, di piena soddisfazione dei desideri”.
Il processo all’Occidente si potenziava e radicalizzava, attraverso le rivolte giovanili, interpretate dai pensatori come Sartre o Marcuse.
Il progressismo diversitario introduce i nuovi diritti, che “non spettano più all’essere umano in quanto tale, ma in quanto esso appartiene a un gruppo, a una categoria, e in particolare a un gruppo storicamente soggetto a discriminazione”. Capozzi specifica che questi diritti sono diseguali, “speciali”, sostanzialmente dovrebbe rappresentare una sorta di risarcimento per gli ex discriminati, per riequilibrare ingiustizie precedentemente subite. Così nasce una specie di neo-tribalismo, l’appartenere attribuisce il diritto a una condizione di favore.
Qui il professore dell’università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, elenca alcune appartenenze generazionali o sessuali di “favore”, comincia dai giovani, come soggettività autonoma, indipendente dal mondo degli “adulti”. Le donne come “gruppo”, strutturato, discriminato in lotta per la libertà di scelta su corpo, sesso, maternità e per la parità con gli uomini in riguardo al lavoro. Gli omosessuali come categoria perseguitata. Infine, tutte le innumerevoli variabili delle identità “di genere”, dei LGBT. Ma per Capozzi anche l’appartenenza culturale, etnica, nazionale, religiosa, viene considerata dal diversitarismo come una scelta, identificata come una “tribù”.
Tutto questo prende corpo nelle politiche multiculturaliste e “interculturaliste”, adottate dai vari Stati occidentali, “secondo le quali i vari gruppi etnico-culturali e religiosi presenti in un paese in seguito ai flussi migratori dovevano godere di spazi garantiti di autonomia culturale e giuridica, a prescindere dalla compatibilità delle loro usanze e costumi con le norme fondamentali di convivenza di una democrazia liberale”. Questo modo di fare secondo Capozzi “invece di favorire la convivenza pacifica, spesso ha acuito i conflitti e le “guerre di civiltà”, dentro le stesse democrazie occidentali, generando delle enclaves fuori da ogni legge condivisa, e svuotando di fatto quelle democrazie di ogni loro profondo significato”.
Questa svolta dell’avvento dell’identity politics, rappresenta per il professore napoletano lo stadio finale del processo di smottamento del comune sentire umanistico occidentale. Del resto per il filosofo Augusto Del Noce, le dottrine rivoluzionarie sono inevitabilmente destinate a sfociare nel nichilismo. Ecco perché il relativismo diversitario si può definire nella formula: “desidero, dunque sono”, senza specificare più, “cosa” sono. Il desiderio acquisisce una centralità straordinaria, diventa criterio-guida del progressismo relativista. Sostanzialmente di questo passo si arriva così a una sorta di dittatura dei desideri. Pertanto, ad ogni desiderio, corrisponde un diritto.
L’elenco di questi diritti diventa indefinito, potenzialmente inesauribile. Si giunge così al “dirittismo”: “una proliferazione di rivendicazioni soggettive della più varia natura, il cui senso complessivo, spesso irto di contraddizioni interne, va ben oltre la distinzione classica tra i diritti civili, politici e sociali, o quella tra ‘libertà da’ e ‘libertà di’”,
Una delle prime liberazioni proposte dal “dirittismo” è quella dei desideri erotici. “Sull’onda del ‘vietato vietare’ non soltanto si invocò l’abolizione di ogni proibizione legale per i comportamenti privati (ancora coerente con i canoni del costituzionalismo liberale) ma la totale parificazione giuridica di stili di vita diversi abolendo ogni preferenza per la stabilità della famiglia come cellula base della società e luogo insostituibile della crescita e formazione dei nuovi nati, che per millenni aveva costituito l’ossatura della civiltà mediterranea, europea e occidentale”.
Sostanzialmente il nuovo progressismo inaugurò “una vera e propria guerra culturale alla famiglia, all’indissolubilità del matrimonio, al legame tra donna e maternità, alla stabilità delle relazioni affettive, proclamando il ‘dogma’ culturale di una libertà sessuale illimitata, senza distinzione di genere, di numero e di tipologia dei rapporti: un’ideologia libertaria/libertina secondo cui l’obiettivo unico delle relazioni doveva essere il raggiungimento del piacere soggettivo, del tutto svincolato da doveri e responsabilità verso gli altri individui e verso la società”.
Tutto questo aprì la strada alla deriva dell’aborto in tutto il mondo occidentale. Pertanto, l’aborto che prima era stato legalizzato dai regimi totalitari nazisti e comunisti, rimasto proibito nelle democrazie liberali, dopo la guerra veniva nuovamente reso lecito, su richiesta dei movimenti femministi.
Capozzi evidenzia come delle democrazie liberali che hanno accettato e metabolizzato il diritto all’aborto, contraddicendo un principio morale e giuridico millenario. È sorprendente come sia potuto passare l’idea che la libertà della madre potesse passare attraverso la cancellazione di tutti i diritti del nascituro.
La legalizzazione dell’aborto secondo il professore napoletano, “dimostra nella maniera più limpida come il “dirittismo” legato al progressismo diversitario costituisca un momento importante nella demolizione della tradizione umanistica occidentale […]”.
Nei successivi decenni il libertarismo/libertinismo sessuale, coerentemente con la sua radice ideologica, si è evoluto come soggettivismo biopolitico. Le varie tribù che intanto hanno acquisito una legittimazione come soggetti “desideranti” di diritto hanno esercitato una crescente pressione sempre più completa sul dominio della vita propria e degli altri. In particolare, il movimento LGBT si è imposto nella società per avere tutti i riconoscimenti possibili e immaginabili. Oltre all’aborto, si fa strada anche la pratica eutanasica il porre fine alla vita non più “degna di essere vissuta”, di un soggetto debole (malato terminale, cronico, geneticamente malformato o in stato vegetativo).
Parallelamente, avanza il “neo-paganesimo ambientalista”, l’ideologizzazione dell’ambiente che considera l’uomo come un accidente. Conservare la natura, il creato, è stato sempre un valore per il pensiero occidentale, in particolare del conservatorismo liberale. Ma l’ambientalismo nato degli anni Sessanta, guardava invece alla natura con un sentimento pseudo-religioso panteistico, parte dell’Eden di innocenza perduta che era stato oltraggiato dall’occidente capitalistico produttivista. Si trattava di una sorta di ritorno alla vita primitiva, priva di lussi, liberata dalla preoccupazione del profitto.
Tuttavia, dagli ambientalisti ora l’uomo è considerato un essere vivente tra gli altri, senza differenze sostanziali, rispetto a quelle vegetali o animali. Ecco perché hanno introdotto la nozione di “ecosistema” (una aggregazione di esseri viventi senza gerarchie). Per la prima volta nella cultura politica ed economica non si considerava lo sviluppo economico come prioritario, nasceva lo “sviluppo sostenibile”, che non doveva offendere l’ambiente, semmai doveva intraprendere interventi riparatori.
L’ambientalismo fondato sull’idea di sostenibilità, colpevolizza gli esseri umani per il fatto di esistere, assume ben presto i tratti sempre più apocalittici con la diffusione tra le élites occidentali, la teoria del “riscaldamento globale” o del “cambiamento climatico di origini antropiche”.
Avviandomi alla conclusione, l’esito di tutto questo cambiamento radicale di vita, comporta un passaggio dalla “decrescita felice”, all’auto-estinzione dell’umanità, paradossalmente si può arrivare all’”animalizzazione” dell’uomo.
Per Capozzi si evidenzia un esito finale e logicamente coerente “della deriva relativistica, antiumanistica, anticristiana insita nell’ambientalismo ideologico. Una logica neo-malthusiana, che impegna associazioni, enti, movimenti, per astenersi dal procreare, per motivi ecologici, fino ad arrivare alla teoria dell’” a-umanesimo”, teoria elaborata dall’inglese Patricia McCormack, che sostiene l’auto-estinzione del genere umano.
DOMENICO BONVEGNA
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