La personalità di don Vincenzo D’Arrigo, stando alle conoscenze che ho di lui da quando ero bambino e alle percezioni e alle informazioni di altri, è, invece, molto particolare. In questo prete, infatti, a mio parere, non c’è nulla di teorico, nulla da ritenere il prodotto di una speculazione applicata a principî astratti. Il suo è un modo di essere pratico, empirico.
di ANDREA FILLORAMO
E’ il 10 ottobre 1965 e nella parrocchia S.S. Annunziata dell’omonimo Villaggio di Messina, un giovanissimo prete, da alcuni mesi vicario economo di quella parrocchia, accoglieva il nuovo parroco, don Vincenzo D’Arrigo di 35 anni.
I fedeli in festa, speravano che, con l’insediamento del nuovo parroco, s’interrompesse, finalmente, così come del resto è stato, il turnover che aveva caratterizzato la successione dei parroci che, a distanza di pochi anni si erano susseguiti l’uno all’altro, facendo pensare che quella fosse una parrocchia di passaggio.
Dal 1948 al 1965, infatti, parroci dell’Annunziata erano stati: Don Giuseppe Bongiorno, trasferito a S. Pier Niceto; don Antonio Cutugno promosso parroco di S. Nicola in Ganzirri dove precedentemente era stato Vice Parroco, don Giuseppe Di Natale trasferito a Spartà. Tali trasferimenti erano per molti degli “strappi” sociali ed emotivi, difficili a ricucire, giacché, come sappiamo, il parroco nelle piccole e medie comunità allora svolgeva un preciso ruolo sociale e dei forti legami affettivi legavano i fedeli al loro pastore. Tutti i parroci sicuramente hanno lasciato un segno indelebile nell’animo di tanti.
Mi soffermo, però, su un prete a me molto caro. Si tratta di don Antonio Cutugno, un vero testimone di una fede vissuta intensamente, un uomo che aveva scelto la povertà come virtù fondamentale del sacerdote, la cui vita, sostenuta dalla preghiera era impegnata per il bene degli altri, particolarmente per i bambini per i quali, al fine di istituire delle scuole parrocchiali materne allora mancanti, ha acquistato con soldi racimolati lira su lira, due fabbricati, uno situato dinnanzi alla grotta dove era nata Santa Eustochia, l’altro nel cosi detto “Circolo”, in sommità della strada vicino alla fermata del 7 barrato.
Andiamo adesso a don Vincenzo D’Arrigo.
Certamente questo prete non è facilmente definibile attraverso un paradigma dedotto dai manuali di pastorale in cui si delineano le virtù che deve avere un parroco, né dai profili precostituiti con i quali in sintesi si vuole racchiudere la vita complessa del presbitero, che non tiene spesso conto, però, degli aspetti antropologici che sono fondamentali. La personalità di don Vincenzo, stando alle conoscenze che ho di lui da quando ero bambino e alle percezioni e alle informazioni di altri, è, invece, molto particolare. In questo prete, infatti, a mio parere, non c’è nulla di teorico, nulla da ritenere il prodotto di una speculazione applicata a principî astratti. Il suo è un modo di essere pratico, empirico.
Egli vive nella concretezza del suo agire, pronto sempre anche, se necessario, a sporcarsi le mani, a trattare, se necessario, anche col demonio, qualunque colore abbia, pur di rispondere al suo bisogno di fare e di ottenere quello che vuole, di agire, di imporsi. Ha fatto, per esempio, il giro del mondo quando è sceso in strada e ha deciso dopo mesi di richieste vane, di passare all’azione, tracciando con la vernice bianca le strisce pedonali davanti alla chiesa dell’Annunziata. Con questo suo modo di essere egli è riuscito a ristrutturare la chiesa parrocchiale, tanto da farla diventare un “gingillo” architettonico di pregio, a costruire gli ambienti parrocchiali, a gestire una scuola materna.
Mai nessuno e niente l’ha intimorito, certo di avere, ovviamente, il sostegno di chi poteva darglielo ma non di quanti escludono il connubio fede-politica, sul quale non intendo soffermarmi. Un fatto è certo: dal 1965 a oggi sono passati 54 anni e Vincenzo D’Arrigo è stato sempre là, all’Annunziata, come una montagna, che ha sempre saputo che non può essere smossa o collocata altrove, sempre a testa alta a guidare una parrocchia che ha sentito come sua esclusiva proprietà. Egli, in questi lunghi anni, ha assistito al cambiamento del territorio prodotto dalla selvaggia speculazione edilizia e quindi all’aumento enorme dei suoi abitanti, che conosce uno per uno, alle generazioni che si sono precipitate, al bene e al male che si annidano nelle anime a lui affidate, sempre pronto ad intervenire.
Da allora egli, formato nel seminario durante il severo pontificato di Pio XII vide salire al soglio pontificio: Giovanni XXIII il papa buono, Paolo VI che ha portato a termine il Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e, infine Papa Francesco. Onestamente non so se nel suo ministero si è ispirato a qualcuno di questi Papi. Vide l’alternarsi anche degli arcivescovi, ad iniziare da Mons. Paino che nel 1957 l’ha ordinato prete, a Mons. Fasola, a Mons. Cannavò, a Mons. Marra, a Mons. La Piana che poco tempo prima di dimettersi da arcivescovo di Messina lo l’ha gratificato nominandolo canonico della Basilica Cattedrale, per ultimo Mons. Accolla.
E’ ovvio che qualunque lunga permanenza in una qualsiasi parrocchia produce voci concordi e voci discordi e non mancano i pettegolezzi, la maldicenza, la denigrazione, la critica non costruttiva ma don D’Arrigo non si fa influenzare da niente o da nessuno, riesce sempre ad avere la situazione sotto controllo.
Fra qualche tempo don Vincenzo compirà 89 anni e, da quanto so, è in piena salute, tuttavia da più parti da tempo si chiede che ceda a un altro prete la parrocchia, anche se la successione si prevede che non sia facile. È questa certamente un’esigenza di un popolo che pretende il cambiamento, ma teniamo conto che è tipico della natura umana credere che le condizioni che siamo abituati a vedere ogni giorno saranno sempre immutabili. È certo che lasciare la parrocchia dopo 54 anni è estremamente difficile e provoca in lui e in molti tanta tristezza perché si chiude un importante capitolo della vita. Ma – lo sappiamo – questo momento arriverà.