Il 6 gennaio scorso davanti al Campidoglio a Washington per molti osservatori è finito Trump e con lui anche il trumpismo. Per certi versi da quello che abbiamo potuto vedere la manifestazione che Trump stesso aveva convocato è finita in un crescendo tragicomico. L’irruzione di alcuni manifestanti all’interno del Parlamento americano se non fosse per le cinque vittime, mi è sembrata una sfilata grottesca o clownesca più che politica. A proposito quante anime belle si sono inginocchiate per la povera Ashli Babbit uccisa da un poliziotto.
Il giornalista Roberto Mazzoni che cura una diretta quasi quotidiana sulle elezioni americane dalla Florida (mazzoninews.com), sostiene che a entrare dentro il palazzo insieme ai manifestanti pro Trump, c’era anche un gruppetto organizzato di Antifa e BLM o qualcosa di simile, entrati col preciso intento di fare più danni possibili. Per la verità lo dice anche John Rao, professore universitario, intervistato da Lanuovabussola, presente alla manifestazione. Delle infiltrazioni ne hanno parlato anche altri commentatori. Comunque sia questa interruzione è andata a beneficio di quelli che volevano definitivamente liberarsi della figura divenuta ormai troppo ingombrante di Trump. A cominciare dai suoi stessi del Partito Repubblicano e ci sono riusciti alla grande.
Certo Trump ci ha messo molto del suo, per questo Paola Tommasi su Libero può scrivere che “il presidente, in una giornata ha cancellato quattro anni buoni”. Peraltro, anche il direttore Senaldi è di questo avviso,“il presidente uscente rischia di cancellare anche il ricordo di quanto di buono ha fatto e passare alla storia solo come un aspirante golpista”.
Anche su atlanticoquotidiano, il direttore è convinto che The Donald «con la linea di comportamento adottata in questi ultimi giorni ed ore, in particolare con quel “non ci arrenderemo mai” rivolto ai concittadini poco prima che tutto cominciasse, si è in buona sostanza politicamente suicidato. E la modalità prescelta (consapevolmente o inconsapevolmente) sembra essere proprio quella di un eroe da poema omerico o da mitologia greca».
Naturalmente ho seguito con attenzione l’evento americano, sui social, in tv, ma poi ho letto alcuni interessanti commenti. Qualcuno più di altri merita la mia attenzione, come sempre promossi da chi non è irregimentato nel Media unico. Il coro apocalittico degli altri piegati al politicamente corretto non è il caso di prenderli in considerazione.
Proverò a fare una sintesi di alcuni aspetti più importanti di questa elezione. Intanto quello che è successo il 6 gennaio scorso non è una novità, è «quasi una replica, speculare e opposta, di quel che avvenne nel 2016. Per chi non ha la memoria cortissima, infatti, l’inaugurazione dell’amministrazione Trump è stata segnata da violente proteste e dal continuo tentativo dei Democratici (appoggiati da una stampa alleata e allineata) di cambiare l’esito del voto del Collegio Elettorale, sino all’ultimo giorno disponibile: non avevano neppure appigli legali per farlo, solo la constatazione che Hillary Clinton aveva preso più voti su scala nazionale (e non conta: il presidente si vota per Stato non per testa). I manifestanti anti-Trump, va detto, non provarono mai a fare irruzione nella sede del legislativo. Ma le loro proteste non furono solo simboliche, ma molto violente, con gravi distruzioni di proprietà. La violenza, il 6 gennaio, c’è stata, ma soprattutto da parte delle forze dell’ordine: Ashli Babbit era disarmata, era lontana dall’agente in borghese che l’ha freddata con un colpo di pistola». (Stefano Magni, Biden è presidente degli Usa. Ed ora: guai ai vinti, 8.1.21, LanuovaBQ.it)
Ora l’occupazione principale dei dem, sembrerebbe quella di «distruggere la memoria di Trump ed impedire che un fenomeno politico simile si ripeta di nuovo. Sarà come Nerone per i romani, o Mussolini per gli italiani: l’anti-trumpismo diverrà una credenziale per essere accettati nel mondo politico americano. Basti sentire questo passaggio nel discorso di Biden di ieri, il primo da presidente eletto: “Negli ultimi quattro anni abbiamo avuto un presidente che ha disprezzato la nostra democrazia, la nostra Costituzione, il nostro governo della legge (…) Ha lanciato un attacco totale alle istituzioni della nostra democrazia sin dall’inizio”. Cosa se ne deduce? Che l’America è stata sotto un aspirante tiranno e che i 74 milioni di americani che hanno votato Trump non hanno espresso una preferenza legittima». (Ibidem)
Pertanto secondo queste dichiarazioni di Biden, non sembra che si voglia affrontare la strada della riconciliazione. Naturalmente anche le dichiarazioni di Trump non promettono nulla di buono. Del resto lui si sente la parte lesa, sono ormai due mesi che cerca in tutti i modi di avere giustizia da qualche organo dello Stato. Praticamente nessuno ha voluto esaminare le prove dei brogli fino in fondo di quello che era successo nel voto elettorale del 3 novembre scorso. C’è una porzione importante della popolazione che ha la certezza di essere stata esautorata dei propri diritti costituzionali. Secondo sondaggi pare che anche una parte che ha votato democratico crede nei brogli elettorali.
Un articolato tentativo di riflessione a margine dei fatti di Washington di Capitol Hill merita essere ripreso, è di Francesco Cavallo, pubblicato dal blog di alleanzacattolica.org. Già il titolo da l’idea plastica di quello che è successo: “Washington 6 gennaio 2021: il Vaffa-day all’americana”.
L’editoriale evidenzia che ormai da decenni i sistemi politico-sociali occidentali sono in forte crisi, “sono seduti su un vulcano”, scrive Cavallo.
E come i vulcani che hanno una parte interna che non si vede e che possono produrre delle attività esplosive devastanti, così anche le nostre istituzioni democratiche, che da tempo sono corrose da un virus pericoloso. «Le scene della pittoresca occupazione del Congresso degli Stati Uniti d’America sono un’eruzione di quel vulcano attivo sul quale sono sedute le postmoderne democrazie occidentali, un vulcano che non si è certo formato negli ultimi 4 anni di Presidenza Trump e men che mai negli ultimi due mesi agitati della politica americana».
Pertanto secondo Cavallo, «si potrebbe dire che quella di ieri è stata una manifestazione di “antipolitica”, “anti-sistema”, con radici antiche, che ha poco a che fare con “trumpismo”,“sovranismo”,“fascismo” (quello non manca mai) e con qualunque altra banalità utile a liquidare con partigiana faciloneria questioni estremamente complesse e profonde».
Della questione dell’antipolitica, si è scritto molto. Questa volta ciò che ha fatto scattare la reazione popolare, è stato il rifiuto dell’esito elettorale che tutto il Congresso si apprestava a ratificare, «ma le radici della rabbia “antisistema” sono profonde e presentano aspetti comuni in tutto il mondo occidentale». La questione richiederebbe maggiore spazio e tempo per capire meglio i fatti di mercoledì scorso. Bisognerebbe per un attimo tralasciare il fatto contingente del 6 gennaio. E piuttosto andare a rivedere alcuni fatti italiani, a partire delle monetine lanciate all’on. Craxi, al cappio sventolato in Parlamento. Soprattutto quello che è accaduto durante i vari “Vaffa-day”, o anche i recenti auspici di abolizione del Parlamento formulati dall’ideatore e promotore del movimento politico nato sui “Vaffa”, ci si accorgerebbe che non sono molto dissimili da quelli risuonati a Washington). Mutano, cioè, i tempi e le modalità di manifestazione del sintomo, ma la malattia delle democrazie occidentali è unica».
Del resto, i manifestanti che hanno occupato il Congresso non se la sono presa con una parte politica, ma contro tutti, compreso il partito repubblicano.
«Del resto, se un tipo seminudo e pittorescamente vestito, occupa lo scranno più altro del Congresso con fare oltraggioso non pare potersi dire ce l’abbia esclusivamente con “la sinistra”…ma con tutto ciò che quello scranno e quell’aula rappresentano». Cavallo sostiene che ci sono delle analogie tra l’ex presidente Trump, almeno all’inizio del suo mandato e il movimento 5 Stelle in Italia.
«E’ grazie a quella spinta antisistema che Trump vinse le primarie e ottenne la candidatura». Pertanto in questi due mesi Trump, costretto ad de-istituzionalizzarsi, sembra aver vestito di nuovo, quello del leader dell’antisistema.
Quindi per Cavallo, «Ciò che ci si è manifestato a Washington il giorno dell’epifania non è, dunque, la malattia, ma un sintomo. E lo stesso Trump (al pari di tanti altri leader politici di questo tempo) non è la malattia, ma un sintomo. Considerare che il problema sia Trump ed illudersi che l’uscita di scena sua o di qualche altro leader politico sia sufficiente a guarire il paziente, significa continuare a far avanzare la malattia, a lasciare che il magma viva e cresca sotto la crosta».
Cavallo fa notare che ormai esiste un forte scollamento tra il popolo e le èlites, manca no quei corpi intermedi, inoltre la società è coriandolizzata e il fatto religioso è scomparso dalla società.
Quindi continuare a demonizzare Trump «significa continuare ad alimentare quella rabbia che invece ha delle ragioni che meriterebbero di essere comprese anziché respinte e snobbate: mettendo un tappo a un vulcano (o cambiandolo) non si evitano le eruzioni, anzi si aumentano pressione e temperatura interne favorendo una nuova eruzione e certamente più violenta della prima».
I progressisti di tutte le risme stiano attenti, se pensano di avere sempre ragione e di autoassolversi, quella di Washington non è che solo una delle manifestazioni della profonda crisi delle democrazie occidentali che vedremo da qui ai prossimi decenni.
DOMENICO BONVEGNA