E’ TUTTA COLPA DEI SOCIAL MEDIA. Perchè ho letto il libro di Matteo Grandi, «Far Web. Odio, bufale, bullismo. Il lato oscuro dei social»? Perchè sono un frequentatore, uno che utilizza molto il web, la rete, tra l’altro ho aperto anche un mio blog. Tante cose che ha scritto Grandi li condivido, tante altre un po’ meno. Far Web è stato pubblicato da Rizzoli nel 2017, ed è attualissimo.
L’autore per evitare equivoci anticipa subito: non è internet, la rete, i social che fanno male, sono gli utenti che fanno un uso distorto. Però è evidente che gli insulti, le discriminazioni di ogni genere, l’istigazione alla violenza, l’omofobia, fake news, reveng porn, sono manifestazioni che la Rete, in particolare i social media amplificano la loro portata. Tuttavia oggi parlare male dei social è diventato lo sport nazionale, lo fanno tutti, la gente comune, i giornalisti, i politici.
Il libro di Grandi tenta di osservare il fenomeno per tentare di capire quanto i social network siano davvero inquinati e in quali termini si ponga realmente la questione.
«Sul fatto che oggi l’odio divampi online, e insieme all’odio tutta una serie di derive – che vanno dalla discriminazione alla misoginia, dall’istigazione alla violenza all’omofobia, dalla creazione di gruppi chiusi in cui vengono fatte circolare immagini di donne ignare sotto alle quali orde di maschi allupati vomitano commenti della peggior specie fino alla piaga del revenge porn, ovvero la messa online a scopo di vendetta di immagini intime della propria ex – ci sono pochi dubbi».
Grandi è consapevole che i social media sono diventati una specie di valvola di sfogo dove vengono scaricate rabbia e frustrazioni di ogni sorta. Sul web con disarmante disinvoltura, vengono insultati persone, politici, sportivi, personaggi pubblici, che hanno la sola colpa di avere opinioni diverse. Un altro fattore grave è che sui social da tempo giungono fake news che intossicano il dibattito civile.
Secondo Grandi c’è l’idea diffusa che la rete per molti sia una specie di zona franca, «un Far Web in cui non esistono regole, in cui vale tutto, in cui vige l’impunità e dove è molto più pratico farsi giustizia da sé. Questa illusione contribuisce troppo spesso a far saltare i freni inibitori e a trasformare la libertà di pensiero in libertà d’insulto».
Di fronte a questa situazione ci sono quelli che condannano la rete e mettono all’indice i social. Si auspicano leggi per “fermare l’odio su internet”. Pochi sono quelli che veramente intendono studiare e comprendere il fenomeno nella sua complessità. Soprattutto pochi sono quelli che ricordano una ovvietà: «i social network sono fatti di persone». Pertanto il problema non è lo strumento della rete, ma gli individui che la popolano. Ne consegue che ad odiare non è il web, ma gli utenti.
Certo il fenomeno è preoccupante, ma estremamente complesso, per questo serve porsi alcune domande. E’ colpa della rete se la gente odia? Se gli utenti ignorano la grammatica dei social media? Quali sono i rischi dell’amplificazione? Chi sono i cosiddetti “webeti”? E poi siamo disposti a sacrificare la libertà d’espressione per portare avanti la crociata contro l’odio online? Il bullismo online è più o meno pericoloso delle forme di bullismo tradizionale? Le piattaforme possono e devono migliorare sul fronte dei controlli e della rimozione dei contenuti offensivi o se ne possono lavare le mani? Esistono vuoti da colmare con leggi ad hoc per internet o le leggi già esistono? E se le leggi esistono perchè non si applicano? Le fake news si possono contrastare?
Sono domande tutte interessanti che il giornalista pone all’attenzione del lettore. Anche se Grandi è consapevole che con il suo libro non risolve la questione: «il nostro scopo non è quello di risolvere un problema complesso e pieno di risvolti etici, giuridici, sociali, politici e tecnologici; ma è piuttosto quello di mettere in luce, di osservare un fenomeno e le sue sfaccettature senza pregiudizi, descrivendolo attraverso numeri, opinioni e storie significative».
Far Web non è un manuale dogmatico, ma un invito alla riflessione, senza dimenticare, e Grandi lo precisa: «i social network, pur con le loro derive, sono uno strumento prezioso. E che, pertanto, non si possono criminalizzare a cuor leggero, senza aver fatto a monte un doveroso bilancio fra vantaggi e svantaggi».
Tuttavia è importante capire perchè tanti individui fanno un uso distorto dei social media. «Perchè molti vivano online una sorta di riconfigurazione della personalità che li rende disinvoltamente offensivi, oltraggiosi e violenti; perchè in rete si sfoghino con tanta disinvoltura odio, rabbia, invidia e frustrazioni».
L’autore prima di entrare nel merito del fenomeno puntualizza che per certi versi lui non intende condannare il diritto all’odio. Tutt’altro, «odiare è legittimo, comprensibile e talvolta necessario. Ma anche l’odio dev’essere consapevole. Non può alimentarsi di bufale, di post verità o di pre bugie. Non può trasformarsi in diffamazione. Non può avere derive discriminatorie o razziste». Secondo Grandi, «l’odio è un sentimento troppo nobile per essere lasciato appannaggio del primo cretino di turno».
I vari capitoli del libro sono ricchi di esempi tratti dalla cronaca recente, soprattutto si sofferma sull’odio nei social media. A questo proposito inizia a raccontare l’episodio di Vasto, dove il fidanzato vendica la propria ragazza morta a causa di un “pirata” della strada. I tanti interventi sui social secondo Grandi hanno alimentato l’odio del ragazzo e per certi versi lo hanno spinto a farsi giustizia da se. Esistono diversi tipi di odio, verso gli immigrati, gli stranieri, per le donne (con istigazione allo stupro e a violenza di ogni sorta), l’odio per i cantanti, per i musulmani, per i ricchi, per i politici, per i gay, per i siciliani, i napoletani, per i giornalisti, per le religioni, per i neri, per i tedeschi, per i francesi e via di questo passo, basta andare su facebook.
Certo le forme di odio ci sono sempre state, ma ora perchè dalla vita “reale” emergono in quella “virtuale”? «Che cosa sta trasformando il web in una sorta di realtà parallela vissuta da molti utenti come una terra di nessuno?». Che cosa porta le persone a mettere un like a certe pagine su facebook.
Naturalmente il libro dà una descrizione abbastanza tecnica delle tre principali piattaforme social: Facebook, Twitter e Instagram. Trovo interessanti le riflessioni tecniche su Wikipedia, considerata da molti come una sorta di Bibbia, tra l’altro è l’enciclopedia più consultata al mondo, per la verità io non la consulto quasi mai. Comunque sia Wikipedia, secondo Grandi, presta il fianco a inesattezze che possono ingenerare delle vere e proprie bufale. Prendere per buono un fatto riportato su Wikipedia e divulgarlo come se fosse una notizia verificata può giocare brutti scherzi. Non sapevo che intervenire su questa sorta di enciclopedia online potesse accedere chiunque, scrivendo o cancellando a piacimento. Certo poi ci sono gli amministratori, che controllano, ma sono pochi e tutti volontari, eletti dalla community.
Grandi fa numerosi esempi di uso distorto dei social, sia a livello individuale che di gruppo (il cosiddetto branco). Appronta una specie di rotocalco dell’odio. Fa riferimento all’hate speech, il veleno che intossica il web, l’intolleranza che si fa linguaggio quotidiano. E’ il motore che genera le peggiori derive della rete, si parte dall’insulto per arrivare all’incitamento all’odio vero e proprio. Propone delle varie esperienze delle segnalazioni a Facebook su certi contenuti palesemente contrari agli standard della comunità, in quanto attacchi espliciti e violenti contro persone, o gruppi di persone, su base etnica, razziale o religiosa. Grandi pubblica dati numerici di esclusi, o rimossi. Peraltro per Grandi i risultati sono alquanto insufficienti, sono pochi quelli che vengono perseguiti. Il giornalista fa riferimento al “Guardian”, che ha messo le mani su diversi manuali destinati ai moderatori che controllano le segnalazione degli utenti, «il giornale britannico – scrive Grandi – ha svelato un universo per certi aspetti controverso e discutibile circa il controllo di violenza, odio, pornografia e razzismo. A gestire le operazioni ci sarebbe un piccolo esercito di persone che spesso non riesce a prendere decisioni tempestive e corrette (col risultato di rimuovere, a volte, contenuti tutt’altro che offensivi e violenti e di lasciare online, spesso, materiale in netto contrasto con gli standard della comunità[…]».
A questo proposito, qualche anno fa, sono stato colpito da queste segnalazioni, la comunità di Facebook mi ha cancellato per una settimana, ancora oggi non ho capito perchè. Chi mi conosce sa che io non ho mai usato linguaggi volgari, violenti, offensivi, irriguardosi verso chi che sia. Certo ho fatto valutazione politiche, religiose, sociali, culturali, storiche. Poi capisco che qualsiasi contenuto può essere giudicato irriguardoso da chi segnala. Peraltro vorrei capire anche questo aspetto. Mi sembra che basta mettersi d’accordo un gruppo di persone per segnalare qualsiasi cosa e far cancellare l’utente. Così entriamo nelle opinioni, nelle idee, chi giudica? Chi censura? Non lo so che idee politiche o religiose abbia Grandi, probabilmente non sono quelle che ho io. Però mi sembra che il giornalista si rende conto che questo è un “campo minato”, da tutti i punti di vista.
Tra i tanti problemi viene evidenziato il cyberbullismo, sono gli atti di bullismo in rete che inesorabilmente vengono amplificati. «La rete si fa ragnatela intrappolando le vittime e condannandole a una tortura quotidiana dalla quale non c’è difesa». E’ una piaga che ha portato a tanti suicidi tra i giovanissimi, soprattutto ragazze, che si sono tolti la vita perchè bullizzati.
Interessante la citazione del sociologo Derrick de Kerckhove, l’erede morale di Marshall McLuhan. Le riflessioni di de Kerckhove sono puntuali sull’attuale situazione del web. «L’umanità si sente prigioniera di un sistema di corruzione diffusa che sta soffocando le speranze, distruggendo risorse umane fondamentali e azzerando le aspettative di un mondo migliore».
Nel 6° capitolo Grandi affronta l’aspetto delle vittime della rete. Chi sono? Ci sono alcune categorie potenzialmente più esposte. Sono i più fragile e i più deboli. Grandi inizia naturalmente con le donne. Le premesse culturali di Grandi non li condivido tutte, sono d’accordo che occorre un lavoro culturale educativo per spazzare le ombre della misoginia che sono ancora forti nella nostra società, nonostante la rivoluzione culturale del 68. Una rivoluzione che doveva liberare la donna invece l’ha incatenata a vecchi legami, fino a renderla schiava del sesso. Dopo oltre quarant’anni di pansessualismo, di rivoluzione sessuale i risultati sono questi, quelli che si vedono ogni giorno frequentando i social. Chi semina vento non può che raccogliere tempesta. Grandi si limita a raccontare come viene trattata la donna, «il quadro che emerge è fin troppo esplicito nella sua brutalità». Sono troppe le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Pertanto non c’è da sorprendersi se sul web le derive misogine raggiungono abissi indicibili. Per Grandi sul web ormai si arriva allo stupro virtuale, una nuova forma di ultramisoginia.
Su questo ancora Grandi pone la domanda: bisogna criminalizzare il web? Certamente no. Anche se non bisogna minimizzare i meccanismi che oggi con la rete rendono possibili certi attacchi alle donne. Dopo le donne ci sono le discriminazioni sugli immigrati, gli omosessuali. Qui Grandi parte da riflessioni perlomeno discutibili, che condivido fino ad un certo punto.
Il 7° capitolo si occupa delle “bufale e dei caproni”, e qui spontaneamente Grandi paragona il web ad uno zoo, dove «ci sono pecoroni che vanno dietro alle bufale, come topi dietro al pifferaio magico». Riporta alcune esempi eclatanti di bufale apparse sulla rete e come difendersi dalle fake news.
Sui mezzi di contrasto Grandi è consapevole che esistono dei rischi. Ci sono rischi di imbavagliare il web, di censurarlo. Grandi fa riferimento a un disegno di legge presentato in parlamento da alcuni parlamentari, ‘per prevenire la manipolazione dell’informazione online’. Ma c’è «il rischio è che per il nostro legislatore la soluzione possa davvero essere quella di ricorrere alla mannaia di una censura indiscriminata, punteggiata da una vaghezza di termini e di intenti che anziché trasformarsi in una tutela per la democrazia rischia di diventare una minaccia ancora più grave». Una legge così non solo sarebbe odiosamente repressiva e illiberale, ma «se una simile legge dovesse vedere la luce il vero rischio sarebbe quello di un effetto dissuasivo in virtù del quale gli utenti, in un clima da caccia alle streghe, potrebbero persino rinunciare a postare notizie o a commentarle nel timore di venire colpiti da qualche sanzione».
Chiaramente i problemi sono abbastanza seri, non si può lasciare allo Stato la definizione della “corretta” espressione dei propri pareri. Certo esistono gli sciacalli della rete, con il proliferare del business sulle fake news, chi scientificamente istiga all’odio, alle discriminazioni, alle violenze. Ma per questo esistono già tante leggi, basta applicarle.
Gli ultimi capitoli Grandi lascia spazio a delle riflessioni culturali sull’utenza della rete, i “webeti”, il “popolino” della rete. Dove tutti hanno diritto di parola anche le legioni di imbecilli e di idioti. E’ l’altra faccia della democrazia: «aver messo tutti in condizioni di esprimere il proprio pensiero ha creato un effetto boomerang. L’eccesso di libertà può diventare un’arma a doppio taglio se di quella libertà si fa un uso distorto». Il giornalista riprende una frase di Umberto Eco significativa e nello stesso tempo provocatoria: «Gli imbecilli prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel». Infine una puntualizzazione: non condivido la semplificazione di Grandi quando accosta i comportamenti negativi dei “webeti a quelli del populismo. Per caso riaffiora l’anima sinistra? E qui ci sarebbe da fare tante altre considerazioni in merito ai vari contesti culturali dove tutti si sentono in dovere di intervenire e di esprimere la propria opinione anche se non si ha la competenza. Ma dobbiamo concludere magari in altre occasioni affronterò la questione.
Domenico Bonvegna
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