di Roberto Malini
A quattro anni dalla scomparsa di Franco Loi (Genova, 21 gennaio 1930 – Milano, 4 gennaio 2021), mi ritrovo a sfogliare la sua autobiografia Da bambino il cielo, come si sfiora un album di fotografie. I momenti salienti della sua vita, come i suoi versi, sono finestre che si spalancano sulla città in cui sono nato e ho vissuto per tanti anni: Milano.
Una Milano transustanziata, nella sua poesia, divenuta luogo in cui l’anima collettiva prende forma nelle parole di un dialetto capace di rendere universali architetture e tracce del quotidiano. Ma Loi non era solo un cantore del dialetto: era, soprattutto, un poeta delle voci dimenticate, delle identità oppresse, degli amori negati e dei sogni che si ostinano a fiorire anche nel gelo dell’esclusione. La poesia di Loi era calda come il sole e mi piace pensare che sia nato e morto in inverno proprio perché il mondo aveva bisogno di quel tepore che, fino all’ultimo giorno della sua vita, ha saputo infondere in chi lo amava, con le sue fiaccole, con le sue parole.
Ricordo in particolare alcuni giorni alla fine degli anni 1970, quando Loi si fece paladino di una poesia capace di sfidare il conformismo editoriale. Non era un’operazione di facciata: Franco Loi si batteva per dare spazio a chi non aveva una voce, a chi, pur scrivendo con talento straordinario, veniva ignorato per questioni di genere, di identità o per non aderire a quel mito del poeta – omosessuale o transgender – “maledetto” che andava tanto di moda e che proponeva quasi sempre eccessi e trasgressioni alternati a momenti di autoflagellazione. Paola Astuni è il nome che emerge tra tutti: la mia indimenticata amica poeta transessuale, il cui linguaggio, così dignitoso e privo di retorica, non trovò mai posto nei cataloghi dei più importanti editori di poesia, neanche di quelli sedicenti progressisti. Loi aveva capito prima di altri quanto fosse necessaria una poesia che non contenesse solo licenza e compianto, ma costruisse ponti in vista di una trasformazione delle società. Il suo appello restò inascoltato e se ne dolse sempre.
Molti anni dopo, ricordo ancora Franco e il suo genio umano. Siamo nel dicembre del 2013 ed eccolo elargire con generosità espressioni di elogio al giovane poeta Steed Gamero, il cui linguaggio fresco e tagliente aveva conquistato il cuore del vecchio autore. “Se tornassi indietro, vorrei scrivere come te,” disse a Gamero. Parole che esprimono ancora oggi quell’incanto e quell’umiltà che rappresentano forse il suo più autentico testamento di essere umano, di uomo del popolo e vate inconsapevole. Loi ha trasformato il dialetto milanese, ibrido e già contaminato dai mutamenti sociali degli anni 1950, in un codice universale. Non un rifugio nella nostalgia, ma una sfida a dare nobiltà poetica a una lingua viva, capace di accogliere arcaismi e neologismi, con un tono alla mano e contemporaneamente sublime per qualità lirica. Non è un caso che uno dei suoi libri più celebri, Stròlegh, sia al tempo stesso un lavoro epico e una meditazione sull’anima popolare. Le ragioni e gli effetti della guerra tornano spesso nella sua produzione e sono simbolo di ferite storiche che non si rimarginano. Franco Loi non offriva soluzioni, ma tendeva un filo tra passato e presente, tra giustizia e compassione, tra rabbia e pietà. Le sue poesie sono attraversate da una tensione spirituale che scavalca persino le ideologie profondamente e lungamente abbracciate, da un anelito libertario che sembra voler restituire la parola al silenzio, il riscatto a chi è stato cancellato.
Inoltre, Franco Loi era un uomo dalla mente aperta, capace di rivedere continuamente le proprie convinzioni e possedeva quella capacità rara di vedere l’altro, di riconoscerne il valore. La sua voce gentile e ferma emergeva tanto nei dibattiti quanto nelle conversazioni private. Non era interessato ai compromessi né alla fama. Credeva nella poesia come veicolo di libertà, come arma per combattere le ingiustizie senza ferire persone, ma squarciando barriere. Quattro anni sono trascorsi dalla sua morte, ma il poeta continua a vivere nei suoi versi, che definiva come le sue “parole”, e nei cuori di chi, come me, trova nelle sue opere una sorgente, un rifugio, una sfida. Se c’è una lezione che ci ha lasciato è questa: la poesia non è espressione dell’ego di un artista, ma è una forma di ascolto e comprensione del mondo, è l’ispirazione del saggio, è quell’intuizione che ci raggiunge quando ne abbiamo più bisogno. E così, mentre chiudo il libro che parla di lui e spengo la luce, sento le sue parole risuonare nell’aria, come un sussurro: “Scrivevo poesia per quattordici ore di seguito al giorno: mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno”. Grazie di tutto, Franco e arrivederci.
Nelle foto, Franco Loi con Steed Gamero e con me (dicembre 2013)