«Sono diventato un mostro per vendere l’anima a Cosa Nostra, perché credevo in Totò Riina, e poi scopro che voleva farmi fuori…, mi sono chiesto a cosa fosse servito fare tutto quello che avevo fatto per un uomo che io vedevo come fosse Dio in terra. è vero, Cosa Nostra scomparirà se i suoi capi resteranno senza eserciti»
Sono le parole di Giovanni Brusca – l’uomo che il 23 maggio 1992 premette il telecomando che fece saltare in aria il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta – contenute nel libro-dialogo “Uno così. Giovanni Brusca di racconta” (Edizioni San Paolo 2024), in libreria da domani 19 settembre. Il testo è frutto di numerosi incontri con Don Marcello Cozzi, ex Vicepresidente nazionale di Libera, esperto nell’accompagnamento ai pentiti di mafia e sacerdote abituato a confrontarsi con tragedie, ingiustizie e faticosi percorsi di riconciliazione. Un esploratore dell’animo, che non vuole fare sconti a nessuno, ma che desidera ascoltare, accompagnare e mettere in evidenza come ogni persona sia un mistero.
Senza chiedere troppo facilmente di dimenticare le sue terribili responsabilità, Giovanni Brusca si apre raccontando il suo percorso, fin dagli inizi ed esponendosi al giudizio del lettore: «Fin da bambino ho convissuto con le forze di polizia”, racconta a don Cozzi, “a causa delle frequenti perquisizioni che venivano a farci in casa. E così è stato inevitabile farmi di loro un’idea pessima; i miei genitori, infatti, me li facevano vedere come fastidiosi e cattivi, come se tutti i guai giudiziari di mio padre fossero colpa loro. (…) Se avessi avuto una scuola attenta, se quelli del Comune fossero venuti a cercarmi quando in quinta elementare mio padre mi ritirò dalla scuola per mandarmi dietro alle pecore, forse la mia vita non sarebbe andata come è andata e forse io non avrei pensato che era quello l’unico modo di vivere».
Il dialogo poi arriva al momento dell’affiliazione in giovane età («Sono stato ritualmente affiliato a 19 anni, credo che sia stato uno dei più giovani nella storia di Cosa Nostra») e spiega come avvenne a partire dal primo omicidio: «Un giorno in paese si era saputo di un tentato omicidio e io non sapevo altro, ma poi i componenti di Cosa Nostra ne iniziarono a parlare davanti a me senza nessuna riserva. (…) Il parlarne alla mia presenza stava a significare che mi stavano coinvolgendo nella cosa.
A quel punto, essendo stato sempre una persona con spirito d’iniziativa e desideroso di dimostrare le mie capacità, d’istinto la prima cosa che pensai di fare fu di studiarmi da vicino le abitudini della vittima. Un giorno passò da casa mia Leoluca Bagarella (…) e gli confidai che conoscevo benissimo le abitudini del potenziale bersaglio. Quando Leoluca, in modo anche provocatorio, mi propose se me la sentivo di ucciderlo insieme a lui, io non ci pensai due volte e senza troppo riflettere gli dissi che per me non sarebbe stato per nulla un problema. E difatti così accadde: nel giro di qualche ora portammo a termine l’operazione». Ed ecco il momento: «Quando mio padre rientrò da Napoli, (…) mi chiamò e mi disse di rendermi disponibile per l’indomani perché dovevo accompagnarlo in un luogo. La mattina seguente mi disse di portarlo nella masseriadi contrada Dammusi (…) A quel punto mi invitarono a entrare in una stanza dove c’erano altre persone e fra di loro Totò Riina che io già conoscevo e che per rispetto chiamavo parrino (…) pensavo di aver toccato il cielo con un dito, mi sentivo preso letteralmente dai ‘turchi’, anche se in realtà non capivo che stava iniziando la mia fine…»
Gli incontri con don Marcello Cozzi arrivano ad affrontare l’omicidio del piccolo Giuseppe di Matteo. E Giovanni Brusca tiene a ribadire al sacerdote: «Marcello, fu questa l’unica cosa che dissi: “vedi cosa mi sta facendo fare suo padre”. Io a Giuseppe non l’ho mai chiamato “u cagnuleddu”. Ma questo cambia poco, quello che ho fatto, ho fatto e nulla potrà mai assolvermi – e continua – Durante i processi le uniche volte che ho perso il controllo è quando sono dovuto ritornare su questa storia» e a proposito del pentimento: «Mi sono chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte del piccolo Di Matteo. Non lo so. Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un omicidio come questo non c’è perdono. Ecco perché mi chiedo: in simili casi, cosa significa chiedere perdono? Io lo so che è importante farlo, ma so anche che non serve né a tornare indietro né a farlo ritornare in vita, quel povero ragazzo. Anzi spesso penso che possa essere visto come l’ennesimo sfregio, una presa in giro. E allora mi dico che l’unico modo per rispettare il dolore che ho creato è stare in silenzio. Ma anche questo viene condannato»
Sul suo ultimo periodo racconta: «Mi colpì quando, uscendo dalla questura per essere portato in carcere, trovai fuori dal portone gente normale, gente onesta, che applaudiva ai poliziotti, urlava e mi gridava dietro cose irripetibili: mostro, bestia e altre cose simili. Ecco, per la prima volta toccavo con mano quello che realmente le persone pensavano di me – e confida – Quando finalmente ho preso coscienza del male che ho fatto, allora per me è stato come entrare in un incubo senza fine». Infine ammette: «Sono stato fermato in tempo, ma anche con molto ritardo. Al punto in cui ero arrivato non so di cos’altro sarei stato capace».
La sua è stata una lunga “carriera” e prima di tutto una “esistenza” nell’inferno della violenza come sistema di potere. Qui lo racconta e si mette nelle mani di un mistero di misericordia più grande di lui.