Visto che non devo inseguire l’attualità…e non sono al libro paga di nessuno, riprendo la mia presentazione della figura della Marchesa di Barolo, attraverso l’ottima biografia documentata curata da suor Ave Tago delle Figlie di Gesù Buon Pastore. Ricordo il testo che ho preso in esame è “Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri”, Libreria Editrice Vaticana (2007).
La Serva di Dio nella sua vita intensa è riuscita a creare, come una nuova Santa Rita, delle opere a volte impossibili. La Colbert, nativa della Vandea, è vissuta e ha operato nella città di Torino, al tempo dell’apostolato di Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Leonardo Murialdo, Francesco Faa di Bruno, Giovanni Bosco. Lo sforzo caritativo della Chiesa di quel tempo, e delle tante organizzazioni cattoliche, ha avuto un ruolo notevole. Spesso di supplenza nei confronti dello Stato, che riusciva a malapena a occuparsi dei servizi essenziali.
La Marchesa era stata educata fin dalla giovinezza alla pratica delle opere di misericordia spirituale e corporale. “Non avendo avuto il dono dei figli, i coniugi Barolo adottarono i poveri di Torino e svilupparono un dettagliato programma di interventi”. Sostanzialmente erano in prima linea insieme al marito sul fronte della carità cristiana, aiutando immediatamente gli indigenti mediante distribuzione di cibo, vestiti e poi con l’autopromozione della persona attraverso l’istruzione culturale e religiosa, la formazione professionale e l’offerta di possibilità di lavoro. Naturalmente si servivano del loro prestigio di nobili per creare nuovi servizi sociali, riforme, leggi a favore degli emarginati. Sia il Pellico che il Lanza sottolineano l’originalità dell’approccio verso i poveri della Marchesa, che andava di persona a far visita alle famiglie povere, entrando nelle case possibilmente con abito modesto. “Il fine dei suoi interventi assistenziali era quello di realizzare un’educazione di vita. Tutti i testimoni concordemente rilevano che sapeva avvicinarsi al povero con rispetto e autentica compassione”.
Suor Tago però precisa che la carità cristiana della Marchesa era mirata: “la Barolo si premurava di prendere le necessarie informazioni allo scopo di impedire che i soccorsi elargiti finissero nelle mani di qualche sfruttatore”. Faceva così un’altra donna apostola della carità, la giovane regina Maria Cristina di Savoia, con i poveri di Napoli. La Colbert era un’attenta amministratrice nelle sue imprese della carità, per le ingenti spese da affrontare.
Il mantenimento di tutte le opere comportava enormi investimenti in denaro, spesso poteva capitare che si trovasse in ristrettezze che le imponevano anche delle privazioni personali. Giulia misi al servizio dei poveri il suo palazzo. Ogni giorno il vasto atrio si riempiva di bisognosi. “Lì, oltre alle duecento minestre giornaliere, si provvedeva alle necessità più impellenti con la distribuzione di cibo, denaro e indumenti”. Addirittura ogni lunedì, nota il Lanza, la Marchesa in prima persona serviva il pranzo a dodici poveri. Di solito distribuiva anche medicinali, bende e panni e si prestava anche a medicare con le sue mani gli ammalati. Ogni anno stanziava la considerevole somma di lit. 10.000, per gli interventi assistenziali. Secondo il Pellico, la Marchesa nel fare l’elemosina provava un certo piacere, una delle prime associazioni da lei fondata fu quella delle Signore della Carità, con lo scopo di visitare i poveri e fare il catechismo. La Barolo animava l’associazione con intelligenza, raccomandando alle sue compagne di “unire la prudenza del serpente alla semplicità della colomba”, preferendo l’esempio dell’apostolato di san Francesco di Sales, pregno di dolcezza e di comprensione.
La Barolo interveniva anche verso un’altra categoria di bisognosi assai numerosa, quella degli orfani e dei neonati abbandonati. Pare che la Marchesa abbia adottato personalmente alcuni di questi bambini abbandonati. Il testo fa anche i nomi.
Il VI capitolo (Le opere educative [1820-1838]) La Tago presenta la questione educativa nel Piemonte della Restaurazione. L’analfabetismo e l’ignoranza delle popolazioni italiane era un fatto largamente accertato. I vari governi legittimisti, restaurati dopo il periodo napoleonico francese, “non si mostravano sensibili rispetto a una politica scolastica per l’istruzione popolare”. Suor Ave fa accenno alla educazione “proporzionale”: “ad ogni ceto sociale doveva essere impartita un’educazione che fosse direttamente proporzionale (quantitativamente e qualitativamente) ai bisogni del suo stato, ma non doveva eccedere tale proporzione e non doveva istillare desideri di promozione sociale”. Tuttavia per la Tago, questo poteva essere uno stimolo per operare in qualche modo per l’istruzione popolare.
Ecco in questo clima operavano nuove Congregazioni religiose che si dedicavano all’impegno educativo dei soggetti dimenticati (poveri, in particolare le donne). Torino era una città ricca di opere pie, non mancavano istituti per ragazze povere. Le scuole elementari erano affidate quasi esclusivamente alla Regia Opera della Mendicità Istruita. In questo contesto si inserì la Marchesa di Barolo con le sue opere educative, chiamando in causa due congregazioni: le Suore di san Giuseppe e le Dame del Sacro Cuore. A questo proposito si fa riferimento all’esperienza della scuola di Borgo Dora, per fronteggiare le nuove emergenze, la Marchesa suggerì di istituire una scuola elementare. Questa scuola fu la prima, di una delle serie di scuole femminili promosse dalla Marchesa, all’interno dei suoi vasti possedimenti nella “Vigna” di Moncalieri, ad Altessano, Villarboit, Orio e Viù.
Intanto in Inghilterra erano nate per iniziativa del filantropo Owen degli asili infantili, che diventarono famose in Europa, Giulia e Tancredi conobbero queste esperienze tramite le scuole francesi che imitavano Owen. Più tardi Tancredi elaborò un progetto educativo più organico, fondato su una precisa analisi psicologica. “Essi vollero anche che i piccoli disponessero di locali luminosi, cibo sano, attività varie, con parecchie ore di gioco e di ginnastica all’aria aperta”. Pertanto il marchese Tancredi è il primo in Italia ad aprire un asilo per i bambini poveri, al contrario di quello che scrive la storia ufficiale, che indica il primo inventore degli asili in Ferrante Aporti.
Intanto la Marchesa oltre ad occuparsi dei poveri, provvede anche all’educazione delle giovani del ceto benestante. Su richiesta del re Carlo Felice, invitò a venire in Piemonte dalla Francia le Dame del Sacro Cuore, perché si dedicassero, secondo le finalità della loro congregazione, all’educazione delle ragazze nobili e della borghesia. Inoltre poi su iniziativa sempre della Marchesa le Dame furono coinvolte nella formazione di scuole cattoliche, volute dal zelante vescovo di Pinerolo, monsignor Andrea Charvaz. Nel 1838 la Barolo finanziò una scuola per la formazione delle maestre, affidandola alle dame del sacro Cuore. Così gruppi di ragazze di modesta condizione, istruite, si sparsero nei vari paesi dove c’era la presenza dei valdesi, per fondarvi scuole cattoliche femminili. Di queste scuole ne parla Silvio Pellico, descrivendo l’importanza e gli ottimi risultati.
Il VII capitolo (L’opera nelle carceri: inizio, progetto, sviluppo [1818-1838]) Come per ogni capitolo, anche qui la curatrice del libro, descrive la situazione generale del XVIII secolo, in questo caso, nelle carceri. Nonostante l’opera di Cesare Beccaria, con il suo studio “Dei delitti e delle pene”, dove si tendeva ad eleiminare la tortura e la pena di morte. “Tuttavia – scrive la Tago – la pena detentiva era sempre vista come una difesa e una tutela della società rispetto ai delinquenti. Non appariva l’idea della rieducazione del reo ai fini di un suo recupero sociale”. Prima che la Marchesa si occupasse delle carceri, la situazione dei detenuti in Piemonte era disastrosa: stipati in carceri malsane, nella più totale incuria, erano preda del malcostume, regnavano le malattie e l’alcolismo, grazie anche alla complicità dei secondini mal pagati, che accettavano compensi in denaro per “chiudere un occhio”. Pertanto l’approccio della Barolo verso i detenuti rappresenta una novità assoluta in Piemonte. La sua visione critica sul modo come veniva inteso il crimine in quegli anni, matura, non solo dalla sua fede, ma anche dalle indagini compiute da Giulia. Scrive la Marchesa nelle sue Memorie: “Non basta castigare chi ha fatto del male, levandogli la possibilità di poter nuocere altrui. Bisogna apprendergli a fare il bene. E quando la giustizia ha riposta nel fodero la sua spada, devesi lasciar campo alla carità di spiegare il suo ministero emendativo”.
Grazie all’esempio dato da Giulia, il re Carlo Alberto fu il primo dei sovrani italiani che decise di approfondire seriamente il problema delle carceri e pertanto nel 1839 accettò il principio che la prigione dovesse mirare anche alla rieducazione morale dei detenuti.
L’interesse della Marchesa per la situazione nelle carceri risaliva alla sua giovinezza. Suor Tago racconta l’episodio che ha spinto probabilmente ad avvicinarsi alla problematica delle carceri torinesi. La processione del Santissimo che un sacerdote stava portando a un malato, passando per la via S. Domenico, la marchesa si inginocchio, in quel momento un detenuto delle vicine carceri, ha cominciato a bestemmiare. Quella voce per lei rappresenta un segno di Dio, da quel momento chiese di visitare le carceri per rendersi conto di persona delle condizioni di degrado in cui vivevano uomini e donne. A poco a poco Giulia ottenne tutti i permessi per entrare nelle carceri e soprattutto di stare con loro nelle loro celle. Nei primi momenti ottenne poco ascolto dalle carcerate, ma Giulia non si scoraggiò. Giulia subì insulti, sputi e persino percosse da parte delle detenute più arrabbiate. Ma lei subì con pazienza e perdonando con cuore generoso. Non intendo soffermarmi sulle varie strategie operate nelle carceri dalla Marchesa qui descritte dalla curatrice del libro. Certo l’impresa non era facile: “sentivo che dovevo donare me stessa alle infelici detenute, non assumendo un contegno severo, ma come persona che compativa le loro sofferenze e desiderava aiutarle”.
La Barolo nelle carceri attuò un programma educativo articolato e specifico. Il primo momento doveva essere della preghiera comune, sapeva che non era facile, si rendeva conto dell’aggressività e dell’abbrutimento di quelle povere donne. Tuttavia la Marchesa mirava anche a migliorare le condizioni di vita delle detenute, e a far riconoscere i loro diritti. Soprattutto la Marchesa si adoperò affinchè queste donne in attesa di giudizio, potessero essere giudicate presto dai giudici istruttori.
Tuttavia la Marchesa per attuare il suo programma di riforme nelle carceri si rivolse a tutti gli amici, non esitò di rivolgersi alla regina Maria Teresa, moglie del re Vittorio Emanuele I e ad altri nobili. Riforme che significava istituire un fondo monetario per fronteggiare i bisogni più impellenti. Poi occorreva gestire la lavanderia e il guardaroba. Si stabilirono criteri per la distribuzione dei vestiti e poi l’assistenza religiosa: “Come non fremere a tale pensiero? Una prigione in cui non è possibile praticare la religione!”.
La Marchesa ottenne buoni risultati per il suo progetto, perchè riuscì a coinvolgere il potere civile, naturalmente usò anche il peso della sua elevata posizione sociale. Il testo pubblica la sua relazione del 10 gennaio 1821 inviata al Primo Segretario di Stato per gli Interni, conte Prospero Balbo, dopo aver accennato alla penosa situazione delle carcerate, presentava una serie di proposte concrete per migliorarla. Proponeva la separazione tra gli uomini e le donne e la prigione per sole donne, in cui la custodia interna fosse affidata a personale femminile. Infatti il 27 giugno 1821 le prigioniere furono trasferite nel nuovo carcere delle “Forzate”. “Sconsigliava l’adozione di misure punitive e l’imposizione di una disciplina più rigida, che non avrebbe contribuito al miglioramento morale della persona. Per lei era necessario invece garantire alle recluse condizioni di vita decorose rispettando la loro dignità”.
Intanto la Barolo fu nominata Sovrintendente delle Forzate, la nuova sede diventa un carcere modello. Sarebbe interessante poter descrivere cosa faceva la Marchesa insieme alle sue collaboratrici all’interno del carcere. Non posso rendere lo studio troppo lungo questo mio studio.
Tuttavia la Marchesa ha una visione molto chiara di come operare per la conversione delle sventurate carcerate. Il suo progetto rieducativo prevede: istruzione, lavoro, catechismo e solidarietà. La rieducazione comincia nell’ascolto rispettoso e amichevole delle recluse. Anche perchè, “la prigioniera – riporto le parole della Barolo – è una reietta dalla società, punita dalla giustizia, tradita dalle sue complici, bene spesso odiata dalle sue compagne di sventura. Se tu le vai incontro col cuore di un’amica, essa vedendo che vi sono ancora anime buone che l’amano, riprende fiducia in sé e nel bene […] Insomma bisogna sulle prime indirizzarsi più al sentimento che alla ragione, cercare di commuoverle, di intenerirle, di farsi da loro amare a forza di dimostrazioni d’amore”.
La Barolo racconta come si guadagnava la confidenza delle detenute, condividendo il cibo, la zuppa, insieme a loro. Insomma, “l’atteggiamento di Giulia si caratterizza per il rispetto verso la persona, per la pazienza e la mansuetudine radicate nella preghiera, e per la condivisione della vita delle detenute”. Pertanto scrive suor Ave, “su questa base si innestano metodi e contenuti educativi che ci appaiono tuttora di attualità, tendenti a favorire le buone disposizioni e l’autopromozione che suscita un’adesione interiore al progetto. La sua è una pedagogia della libertà, finalizzata a risvegliare la coscienza e la responsabilità personale. Per recuperare il senso della dignità del corpo, occorre migliorare le condizioni igieniche e fisiche: per questo, nel regolamento delle Forzate, viene data molta importanza alla pulizia e al decoro del corpo e delle strutture del carcere”. Mentre scrivo sto pensando allo sciagurato oblio in cui viene tenuta questa grande donna che ha operato tutta la sua vita per dare alle donne una vita veramente dignitosa. Penso alla cosiddetta storia ufficiale dell’educazione, della pedagogia che non fa alcun cenno alla sua opera rieducativa soprattutto delle donne.
DOMENICO BONVEGNA
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