Guerra. Italiani in trincea da Caporetto a Salò: i “MILITI IGNOTI” COSTRETTI A VIVERE E MORIRE NEL FANGO DELLE TRINCEE

Guerra. Italiani in trincea da Caporetto a Salò: il 4 novembre si avvicina e come ogni anno si festeggia, si commemora retoricamente una vittoria di una guerra che gli storici hanno definito “mutilata”, ma che probabilmente andava definita in maniera diversa. Certamente può essere definita con le parole che il giornalista Silvio Bertoldi, utilizza riferendosi a D’Annunzio, ma può valere per tutti quelli che ogni anno ripetono come un mantra frasi fatte per rievocare una vittoria: “purtroppo non ne afferra l’aspetto tragico e feroce, l’assurda inutilità, né riflette al sacrificio di sangue di milioni di uomini protagonisti obbligati di mostruose carneficine” .

 

Tutti i libri che ho letto sulla Grande Guerra, mettono in risalto la brutalità, la ferocia, la tragedia di quella guerra. Anche il libro di Silvio Bertoldi, «Guerra. Italiani in trincea da Caporetto a Salò», Rizzoli (2003), lo fa. Il testo racconta le storie di uomini e donne, famosi o sconosciuti, che hanno partecipato ai tre sanguinosi conflitti del Novecento italiano: la Grande Guerra, la conquista dell’Etiopia, la seconda guerra mondiale.

Bertoldi ottimo giornalista e scrittore scrive con abilità narrativa, rendendo piacevole e scorrevole la lettura, con grande ricchezza di aneddoti, di citazione di testi riuscendo a descrivere con accuratezza avvenimenti e protagonisti di quegli anni terribili per il nostro Paese. Il testo inizia da Torino, il mattino del 1 luglio 1914, presso l’albergo “Turin”, viene trovato morto dalla cameriera il cliente della camera 49. Non è un cliente qualsiasi, si tratta di Alberto Pollio, comandante supremo dell’esercito italiano. In altri libri, si ipotizza che è stato avvelenato. Pollio essendo filo-austriaco, era diventato un ostacolo per gli interventisti che puntavano alla guerra contro l’Austria.

Comunque sia a Pollio succede Luigi Cadorna, un nome “storico”, il padre era quello che il 20 settembre 1870 aveva conquistato Roma del Pontefice Pio IX.

Bertoldi presenta una descrizione del generale abbastanza precisa. Un uomo testardo, che pur di sostenere le proprie tesi, andava contro la realtà e soprattutto non aveva nessun riguardo per la vita dei propri soldati. «Seicentomila morti, un milione di feriti, centinaia di fucilazioni, decimazioni, innumerevoli destituzioni sono il bilancio della sua gestione». Spesso cacciava i propri generali rei di subire sconfitte: durante i tre anni di guerra ‘silurò’, 217 generali e 300 colonnelli. Sostanzialmente, «al fronte era un monarca assoluto».

Bertoldi su Cadorna non fa sconti: «Tenne il fronte per quasi tre anni, logorando le truppe in sterili offensive[…]». La sconfitta di Caporetto non è sua, il giornalista la attribuisce al generale Capello e a Badoglio in particolare. Però Cadorna ha contribuito molto alla disfatta di Caporetto: «la durezza di trattamento dei soldati, il mandarli continuamente all’assalto in dissennati e sanguinosi attacchi, il negargli ricambi e licenze, il considerarli traditori se si lamentavano e addirittura soggetti da fucilazione se manifestavano idee non ortodosse. Ancora, la disciplina mantenuta con i plotoni di esecuzione e i carabinieri alle spalle delle truppe per sparare su quanti si fermavano terrorizzati o manifestavano l’intenzione di ritirarsi, il pretendere impossibili entusiasmi da chi combatteva una guerra divenuta un macello […]».

Un altro protagonista osservato da Bertoldi è il re Vittorio Emanuele III, con la sua immancabile macchina fotografica a tracolla, tanto che i soldati lo chiamavano «il re fotografo». Una prima descrizione viene offerta nel summit interalleato a Peschiera, subito dopo la disfatta di Caporetto. In mezzo a tanti esponenti politici, militari, il re non fa una bella figura, appare stanco e imbarazzato. L’incontro si svolge in una confusione tutta italiana, praticamente non ci sono neanche le automobili per trasportare i nostri ministri, quelli inglesi e francesi hanno provveduto da soli.

Anche su Vittorio Emanuele III, Bertoldi riesce a dare un’immagine precisa, con racconti particolareggiati delle sue giornate al fronte. Era di poche parole con i generali, recitava la sua parte, poi cominciava a scattare foto: ufficiali singoli e in gruppo, paesaggi devastati dalle bombe, villaggi deserti, colonne di soldati. Con tutte le centinaia di immagini raccolte scrupolosamente, il re collezionò ben otto album di tela rossa destinati al figlio Umberto, perchè si rendesse conto di cos’era stata la guerra. Le immagini catturate dal re, sono quasi sempre, «soggetti quasi obbligati, puntualmente ripetuti a ogni visita».

Bertoldi ci tiene a precisare che il re non ha mai fotografato scene di guerra, nessuna azione sconvolgente: uccisioni, scene macabre, anche perchè dove arrivava lui non si combatteva più, e quindi non era colpa sua se nei suoi album mancava l’azione immediata della guerra. «Il lavoro fotografico di Vittorio Emanuele rispecchiava il suo carattere: diligente, distaccato, freddo. Vedeva la guerra con l’occhio di un collezionista di immagini, senza partecipazione emotiva».

Un altro personaggio di cui si occupa il libro è l’eroe nazionale, più popolare e amato,  Francesco Baracca, «l’asso dell’aviazione italiana nel primo conflitto mondiale». Un eroe cavalleresco, senza odio, con rispetto per il nemico vinto, ammirazione del  valore altrui. La guerra area, «non si combatteva nelle trincee del Carso, ma nei liberi spazi del cielo, dove la contesa diventava individuale, uomo contro uomo, e la lotta si liberava dalla ferocia e dal terrore, per assumere quasi una dimensione ariostesca».

Bertoldi accenna alle caratteristiche quasi cavalleresche di questi piloti, delle varie squadriglie aeree. Della stessa stoffa di Baracca, si può considerare il comandante dei mas Luigi Rizzo, siciliano milazzese. Rizzo divenne l’eroe più famoso della nostra marina militare. Fu quello che a bordo del suo Mas 9, riuscì ad entrare nel porto di Trieste ed affondare la corazzata austriaca Wien. E poi fu artefice dell’affondamento delle due corazzate austriache, Santo Stefano e Tegetthoff. Senza dimenticare l’altro personaggio estemporaneo, il mutilato, Enrico Toti, sembra che cercasse anche lui «la bella morte», un personaggio che, grazie alla famosa tavola di Beltrame sulla Domenica del Corriere, colpì tanto la fantasia popolare.

Ma il personaggio che ha più di tutti influenzato gli italiani in guerra, è stato Gabriele D’Annunzio, che il 5 maggio 1915, ha parlato agli italiani simbolicamente da Quarto, dove erano partiti i Mille di Garibaldi. Qui ha incitato gli italiani a partire per combattere contro l’”eterno nemico” austriaco.

D’Annunzio nonostante i suoi 52 anni, vuole combattere, superando ogni ostacolo, si rivolge direttamente al presidente del Consiglio Salandra: “Ella sa che tutta la mia vita ho aspettato quest’ora…”. D’Annunzio ben presto assume un’importanza straordinaria negli avvenimenti bellici. «si capisce che lo considerano una specie di fiore all’occhiello degli alti comandi, una specie di testimonial delle forze armate,uno specialista in operazioni promozionali della guerra. Da usare per la propaganda, per far parlare i giornali, per stimolare i soldati e per esaltarne le imprese […]». D’Annunzio combatterà una propria guerra privata, nel lusso, da privilegiato, con il solito codazzo di amanti e di consolatrici. Non rinuncerà agli inviti delle contesse veneziane, delle cene cameratesche con gli ufficiali della sua squadriglia, dai viaggi a Milano per trattare con gli editori, e poi per la sua passione per le stravaganti uniformi. Infatti oltre a quelli che lo adulano e gli professano devozione, ci sono quelli che lo criticano aspramente. Una cosa è vivere nell’albergo Danieli di Venezia, un’altra cosa vivere nella polvere e nel fango delle trincee del Carso.

Tuttavia D’Annunzio debutta nella guerra come aviatore e il 7 agosto sorvola Trieste, lanciando messaggi ai triestini per esortarli a liberarsi dal “gioco austriaco”. L’altro volo ancora più celebre è quello su Vienna del 9 agosto 1918, un’impresa eccezionale per quei tempi. D’Annunzio getta cinquantamila volantini per invitare i viennesi alla resa.

Bertoldi riconosce che bisogna accettare D’Annunzio così com’è, certamente non si può rinnegare la sua personalità, «anzi il proprio personaggio portato all’ostentazione, a proporsi sempre nella veste di superuomo». Pertanto occorre accettare il poeta-guerriero come uno che «consideri la guerra come un palcoscenico su cui esibirsi da primo attore e che ne colga gli aspetti soprattutto in quanto elementi di ispirazione e di trasposizione letteraria».

Sono celebri i suoi discorsi per infiammare i soldati che probabilmente non comprendono molto il linguaggio magniloquente del poeta. D’Annunzio è richiesto dai vari comandanti e il poeta non si risparmia. «La guerra lo trascina nel suo vortice, si trasforma in una voluttà che lo eccita come la droga, come un piacere carnale. Purtroppo – scrive Bertoldi – malato com’è di letteratura, non ne afferra l’aspetto tragico e feroce, l’assurda inutilità, né riflette al sacrificio di sangue di milioni di uomini protagonisti obbligati di mostruose carneficine».

Tuttavia lo stesso D’Annunzio, racconta Bertoldi, non ha mai tenuto conto della dura realtà della guerra, degli uomini stanchi di inutili stragi, trattati come carne da cannone, che odiano la guerra e disprezzano chi li costringe a farla. Tra l’altro è stato protagonista di un episodio, che gli doveva fargli aprire gli occhi sulla brutalità della guerra. Si tratta dell’ammutinamento della brigata “Catanzaro”, a Palmanova del Friuli, discesi dal Carso dopo aver subito ingenti perdite, stravolti, stremati per la fatica, addolorati per la morte di tanti compagni, al momento dell’adunata si ribellarono, rifiutandosi di obbedire agli ordini degli ufficiali. «Tre ufficiali vennero massacrati, quattro carabinieri linciati. Urlavano abbasso la guerra, urlavano soprattutto morte a D’Annunzio, uno di quelli che la guerra l’avevano voluta e ora impedivano di fare la pace a qualsiasi costo». Addirittura i soldati marciarono verso il centro del paese, credevano di trovare il poeta. Lo cercavano per ucciderlo, fortunatamente D’Annunzio non c’era.

Le conseguenze dell’ammutinamento furono terribili, quaranta soldati furono fucilati dopo essere stati scelti per decimazione, altri 135 inviati davanti al tribunale militare che colpì spietatamente. D’Annunzio nonostante tutto ha avuto la spudoratezza  di presentarsi ai superstiti a parlare di sacrificio, di doveri, di fraternità.

Bertoldi non racconta solo episodi, ma fa il bilancio amaro delle battaglie. La prima quella sull’Isonzo, quindici giorni di combattimento con 14.947 tra morti e feriti. Interessanti le descrizioni delle giornate dei soldati all’interno delle trincee, la paura di morire in ogni momento. La vita a -30 gradi sugli altipiani delle Alpi innevate e ghiacciate. La conquista dell’Adamello, la cosiddetta “Guerra Bianca”. Quante fatiche inenarrabili e sacrifici umani per tenere le posizioni, Una guerra senza senso. Bertoldi descrive anche i tedeschi, gli austriaci, fa riferimento ai loro comandanti, generali, tra tutti spicca, Otto Von Below, un nobile baltico, nato a Danzica.

Un’ultima scheda riguarda le donne, “le dame e le altre”. Sono le tante crocerossine, giovani, spesso belle, tutte volontarie, che ogni giorno dovevano medicare, accudire i feriti, i disperati, i morenti, tra urla e sangue su facce sfigurate, gambe e braccia straziate. Erano le donne al fronte anche loro affrontavano la loro battaglia quotidiana che consisteva nel salvare la vita di tanti soldati. Tra queste crocerossine, Bertoldi, ricorda Elena d’Aosta.

Queste donne operavano in un ambiente abbrutito, tra soldati esasperati, sfiduciati, dove spesso dovevano sopportare volgarità e allusioni, ascoltare bestemmie dei feriti. Poi c’erano le altre donne, le “dame”, si fa per dire, quelle di tolleranza. «Il problema del sesso preoccupava gli alti comandi. Bisognava affrontare con realismo le incognite comportamentali derivanti, per giovani sani, dalla prolungata astinenza dovuta a lunghi periodi al fronte».

Per questo si è trovata la soluzione aprendo delle case di tolleranza nelle retrovie, dove signorine attratte da ingaggi consistenti (a carico del governo) operavano per soddisfare i “militi ignoti”. Peraltro queste case erano organizzate come per il rancio, si dividevano in quelle per ufficiali e in quelle per i soldati. Bertoldi descrive l’attesa dei ragazzi scalpitanti, che facevano la fila come in posta. A quanto pare di questo servizio delle “dame velate”, fruiva anche il re.

La parte che riguarda la prima guerra mondiale, finisce con l’aspetto politico della comunicazione, dell’informazione che più delle volte era manipolata, o mancava completamente. Agli italiani bisognava far sapere ciò che era opportuno far sapere, cioè nulla.

Era vietato ai giornalisti recarsi al fronte, vietato frequentare i comandi, vietato raccogliere indiscrezioni. «La lunga strada dell’inquinamento mediatico – scrive Bertoldi – comincia da qui». I soldati non dovevano sapere nulla. Le sole notizie ufficiali diffuse tra le truppe in linea si riferivano alle condanne a morte e alle fucilazioni dei disertori, puntando sull’effetto intimidatorio che ne sarebbe derivato. Era una forma “educativa” di terrorismo.

Per quanto riguarda Caporetto, molto si è scritto per nascondere, per non far sapere cosa era veramente successo. Bertoldi fa riferimento al tenente colonnello Nicolò Della Volpe, che ha avuto il coraggio di raccontare per iscritto la catastrofe Caporetto. Quali furono le vere cause della disfatta? E qui Della Volpe fa una analisi impietosa della disorganizzazione delle truppe, dei comandanti inefficienti e spesso disumani, fucilazioni crudeli e dissennate, decimazioni insensate. Perchè si doveva continuare a resistere o a morire quando si era comandati da personaggi inetti e squallidi. Neanche la propaganda dei manifesti riusciva a convincere o a far diventare popolare una guerra ormai diventata carneficina.

Domenico Bonvegna

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