Si sta avvicinando il 15 agosto e i messinesi si preparano a partecipare o ad assistere, alla festa ultrapopolare della Vara, preparata e gestita da un apposito Comitato Cittadino e non dalla Curia, al quale, però, fa parte un cappellano designato dall’arcivescovo.
di ANDREA FILLORAMO
Si sta avvicinando il 15 agosto e i messinesi si preparano a partecipare o ad assistere, alla festa ultrapopolare della Vara, preparata e gestita da un apposito Comitato Cittadino e non dalla Curia, al quale, però, fa parte un cappellano designato dall’arcivescovo.
Per anni cappellano e presidente, ormai storico, della Vara è stato e forse ancora lo è, Mons. Vincenzo D’Arrigo, al quale occorre riconoscere l’equilibrio con il quale ha svolto il suo ruolo anche in qualche momento difficile per la storia di questa festa che ha ben cinquecento anni di vita, e, quindi – ne sono sicuro – ha cercato, per quanto è gli stato possibile, di bilanciare con la preghiera l’incontrollabile parossismo che, annualmente, invade un po’ tutti, attori e spettatori emotivamente coinvolti. A questo punto occorre fare alcune considerazioni. Lo sappiamo: la religiosità popolare ha certamente i suoi limiti; essa è frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni, anzi di superstizione ma, se è ben orientata, è ricca di valori.
Ciò avviene soltanto se ci sono norme chiare di comportamento nei confronti di una tradizione, come quella della Vara, ricca e insieme così vulnerabile. Perché questa enorme potenzialità di bene non resti vanificata o peggio non degeneri e diventi anche accettabile alle nuove generazioni, occorre che vengano attivate strategie di animazione e di evangelizzazione e che si abbia cura sia dei motivi devozionali che di quelli socio-culturali o anche economici. E questo è compito della chiesa locale. Occorre aiutare a trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso e il rifiuto, facendo emergere la religiosità più come richiesta di senso della vita, esaltazione dei valori umani e cristiani, che come spettacolarizzazione.
Rifiutare “a priori” ogni forma di devozione, significa situarsi fuori della tradizione cattolica e manifestare un certo misconoscimento del mistero dell’incarnazione. La festa, ogni festa, deve diventare celebrazione dell’uomo interiore e, quindi, manifestazione di un linguaggio dello spirito. E’ questo un difficile compito che il clero messinese deve svolgere, al di là del superabile devozionismo che è sempre pericoloso per la fede.