Due notizie mi hanno indotto a leggere un altro libro in “attesa” negli scaffali della mia biblioteca, di essere letto. Si tratta “A Mosca solo andata”, dal sottotitolo: “La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia”. (Mondadori, 2013) autore, lo storico Arrigo Petacco. Le due notizie che mi hanno spinto alla lettura sono che Vladimir Putin ha autorizzato i suoi storici a riscrivere per gli studenti, la Storia della Russia, con una rivalutazione dell’esperienza dell’Urss di Lenin e Stalin.
Peraltro qualche anno fa la Corte Suprema russa con sentenza del 28 dicembre ha chiuso, anzi «liquidato», “Memorial Internazionale”, il centro di ricerca fondato nel 1989 dal grande fisico perseguitato Andrej Sakharov per preservare la memoria delle repressioni sovietiche. L’altra notizia è la scomparsa del presidente emerito Giorgio Napolitano, noto esponente del Partito comunista italiano, che certamente ha conosciuto la storia che racconta Petacco, la scomparsa dei giovani comunisti italiani nel gulag.
Il libro racconta la storia di quei duecento giovani comunisti italiani (l’età media era di 20-25 anni) che, accorsi in Unione Sovietica per contribuire all’edificazione del primo Stato socialista, finirono stritolati in quella orrenda “macchina di morte”. Il compianto Petacco inizia il suo studio da un incontro con Paolo Robotti, nella sede del PCI, quando era segretario Berlinguer. Robotti faceva parte della vecchia guardia comunista ancora vivi, (“cimitero degli elefanti”) come Scoccimarro, D’Onofrio, Lampredi, ma da tempo accantonati perchè non più “in linea” del nuovo corso del partito. Robotti era il classico “uomo di marmo” della mitologia comunista, il tipico esemplare di quella austera e quasi monacale generazione che aveva dedicato l’intera vita al partito, pronta a sacrificarla per difenderlo (ma anche pronta a toglierla a chi lo tradiva)”. Era il tipico comunista che si riteneva toccato da una grazia, che le conferiva una superiorità morale su chi comunista non era.
E’ stato proprio Robotti a invitare Petracco per parlargli del libro “La prova”, che lo storico aveva recensito. Proprio questo libro aveva sollevato scandalo e pertanto, stroncato dalla stampa comunista, infatti non lo aveva pubblicato neanche gli editori Riuniti, la casa editrice del PCI. Era un libro di bruciante testimonianza, di un dirigente comunista, che racconta le repressioni staliniane, dopo quasi trent’anni. Una testimonianza non gradita dai nuovi dirigenti del PCI. Del resto quando uscì nel 1956, il “rapporto segreto” di Nikita Kruscev sui crimini staliniani, i nuovi dirigenti del PCI, allevati al culto di Stalin, lo accolsero con stupore e incredulità. Ora che Robotti ha voluto pubblicare le sue memorie, tra l’altro parziali e riduttive, la direzione del partito lo ha redarguito, non riconoscendo il suo libro.
Robotti era cresciuto nel borgo San Paolo a Torino, operaio comunista, per sfuggire alla persecuzione fascista nel 1923 era espatriato per la Russia e così si ritrovò insieme agli altri giovani italiani, peraltro quasi tutti piemontesi, in particolare provenienti dal capoluogo. Fu eletto presidente del “Club degli emigrati”, ma ben presto l’atmosfera amichevole si incupì progressivamente, dopo che Stalin iniziò le famose purghe per liquidare i suoi oppositori. Così iniziò “la caccia ai “deviazionisti”, alle “spie”, ai “nemici del popolo”, con confessioni estorte con la tortura, autoaccuse paradossali, complotti immaginari, assurde chiamate di correo e quindi deportazioni di massa, plotoni d’esecuzione in diuturna attività e tante, tante fucilazioni (‘al ritmo di cinquecento al giorno confesserà Dimitri X, conosciuto come l’autista della morte’)”. Pertanto scrive Petacco, dopo aver epurato le alte sfere, le purghe raggiunsero anche i livelli più bassi, “soprattutto gli emigrati stranieri che ora venivano osservati con sospetto perché ritenuti inquinati dal morbo borghese”.
Praticamente, tutti “questi uomini, ai quali l’URSS era apparsa come la “terra promessa”, si ritrovarono così in un inferno dal quale ormai era impossibile evadere. Molti di essi infatti avevano assunto la cittadinanza sovietica e quindi erano sottoposti alle restrittive leggi in vigore, mentre per gli altri, il solo tentativo di chiedere aiuto alle rispettive ambasciate veniva considerato una confessione di colpa”.
Anche al “Club degli emigrati, si inizia a ricevere la visita delle “giacche di cuoio”, i temuti agenti della NKVD, la polizia politica. Nascondere il passato non era facile, gli emigrati erano tutti schedati; il PCI prima di partire per la Russia, predisponeva una scheda personale per tutti. Saranno proprio queste biografie, che spesso, forniscono alle “giacche di cuoio” gli elementi necessari per essere trasformati in assurdi capi di accusa. Le riunioni di circolo si trasformavano spesso in processi inquisitori. Il terrore regnava sovrano, mentre il presidente Paolo Robotti, che era cognato di Palmiro Togliatti, chiuso nella sua “giacca di cuoio”, “si preoccupava soltanto di compilare minuziosi verbali che consegnava a chi di dovere”. Perfino alla sua porta bussarono, fu portato alla Lubjanka, il carcere di Mosca. UN primo interrogatorio che andò avanti per alcuni giorni e fu molto duro. Rilasciato, fu di nuovo portato questa volta a Taganka, l’altro carcere di Mosca, dove rimase in una cella in totale isolamento per tre mesi, successivamente per altri quindici mesi. Scrive Petracco, durante i mesi di detenzione, Robotti “fu sottoposto a estenuanti interrogatori e atroci torture: percosse, scariche elettriche e soprattutto l’obbligo di rimanere in piedi senza appoggio per giorni o notti intere finchè non cadeva a terra privo di sensi […]”.
Robotti resistette stoicamente alle percosse, rifiutando di “confessare” che tutti i compagni italiani, compreso Togliatti, erano una banda di traditori trockisti. Durante la conversazione con Petracco, Robotti, mostrò una copia della lista dei compagni caduti davanti ai plotoni d’esecuzione o inghiottiti dal Gulag. Questa lista precisa Petacco fu consegnata a Palmiro Togliatti affinchè provvedesse alla riabilitazione delle vittime come si stava facendo in Unione Sovietica. “Togliatti l’aveva letta svogliatamente, aveva riflettuto per qualche istante, poi l’aveva accartocciata e gettata nel cestino. ‘Queste sono cose da dimenticare’ sentenziò. Meglio non parlarne’”. Pertanto può scrivere Petacco che il PCI, fu l’unico tra i “partiti fratelli”, a non riabilitare i comunisti italiani decimati dalle purghe italiane. Anzi impedì in seguito, finché gli fu possibile, ogni ricerca negli archivi sovietici riaperti al pubblico.
Il testo di Petacco nei XII capitoli descrive diversi episodi e storie di uomini e donne che furono protagonisti di tragici eventi, di prigionie, di deportazioni senza motivo nella glaciale Siberia. Solo pochissimi di questi comunisti italiani si salvarono, loro che con entusiasmo erano partiti ritenendosi al sicuro nella patria del socialismo. Petacco fa riferimento alle lettere che spedivano nei primi momenti ai familiari in Italia. Oltre a Togliatti che diventò “Ercole Ercoli”, tutti gli altri hanno preso un nome di copertura, Luigi Longo, Giuseppe Berti, Giuseppe DiVittorio, Ottavio Pastore, Antonio Roasio, Giuseppe Dozza, e altri. Questi dirigenti godevano il privilegio di abitare all’Hotel Lux, l’albergo dei “vip”. Qui c’erano anche gli altri leader stranieri che poi sono diventati capi di Stato delle Democrazie popolari. Naturalmente si parlavano una decina di lingue. L’edifico era sorvegliato notte e giorno, dagli agenti della polizia, naturalmente attorno al Lux, stazionavano anche le prostitute. Legati al sesso, Petacco, racconta diversi episodi. Il vizio borghese che il partito condannava, ma che nessuno ripudiava.
Il testo è pieno di notizie e di nomi che si intrecciano nella storia del sovietismo leniniano e staliniano. Lo storico ligure riporta storie curiose di uomini e donne che hanno fatto la rivoluzione, come Tina Modotti, una bella modella che da Hollywood è finita a diventare una fanatica attivista comunista, amante di Vittorio Vidali, alias Carlos Contreras, una specie di Killer che abitualmente svolgeva dei lavori sporchi, come l’eliminazione dei compagni deviati.
Un capitolo a parte viene dedicato alla guerra civile nel 1936 in Spagna, Petacco racconta anche qui dei particolari interessanti, Per esempio che Stalin voleva mantenersi fuori da questa guerra, perché era troppo impegnato a consolidare il suo potere personale in Russia. Poi cambiò atteggiamento perché i suoi rivali politici, trockisti e anarchici stavano prendendo il sopravvento soprattutto in Catalogna a Barcellona. Anche Mussolini aveva esitato a considerare “fascista” l’insurrezione nazionalista del generale Franco. Gli sembrava una medievale jacqueria vandeana.
Petacco nell’ambito di questa guerra ci racconta quella “nascosta” che si consumò tra le diverse fazioni rivoluzionarie comuniste e anarchiche. Stalin oltre agli aiuti e ai volontari spedì segretamente una commissione di “consiglieri” a Madrid, guidata da Palmiro Togliatti e da altri commissari dirigenti NKVD. Stalin aveva affidato un compito particolare, subdolo, un po’ paradossale. “Ufficialmente dovevano aiutare il governo spagnolo a vincere la guerra, ma in effetti dovevano soprattutto provvedere a fare limpieza (sinonimo spagnolo del russo cistka, pulizia politica) degli anarchici e dei trockisti che costituivano il nerbo principale della resistenza[…]”. In pratica Togliatti svolse in Spagna le funzioni di “vicerè di Stalin”, operando sempre nell’ombra. “Tanto è vero che, per scagionarlo delle sue gravi responsabilità, la storiografia comunista negherà persino la sua presenza in Spagna”. In realtà, Togliatti operò sotto falso nome per tutta la durata della guerra nell’albergo Gaylord di Madrid. Da qui insieme agli altri consiglieri sovietici guidava la guerra dei comunisti spagnoli, che dovevano ignorare di essere diretti da un comunista straniero.
Petacco racconta delle esecuzioni dei “banditi” anarchici e poumisti, che Togliatti affidava al Soccorso rosso guidato da Vittorio Vidali. Le esecuzioni con un colpo alla nuca, spesso, si eseguivano all’alba lungo le ramblas di Barcellona. Ci sono altri episodi significativi che andrebbero raccontati, come quello dell’amore tra Nella Masutti ed Emilio Garlaschelli, anche lui costretto ad emigrare da Torino.
La sua storia scrive Petacco “non è molto dissimile da quella di altre migliaia , o milioni, di deportati che hanno avuto la sventura di finire nel gulag per colpe altrettanto banali”. Poi la compagna con le tante lettere scritte al fratello Mario a Torino, cercò un editore per pubblicare un libro, affinché tutti conoscessero la tragica vicenda di cui lei ed Emilio furono protagonisti. In Italia il tema era ancora tabù, trovò un editore francese nel 1979 col titolo “Une petite pierre”, poi Garzanti soltanto nel 1982 lo pubblicò in Italia. Un altro capitolo a parte è quello della misera sorte di tanti bambini, i “figli del partito”, rimasti senza genitori e spediti negli istituti organizzati dal Comintern per forgiare gli “uomini nuovi”. Il fenomeno secondo Petacco non aveva precedenti nella storia. Tanti ragazzi di etnia diversa sono stati educati secondo un unico programma, immaginato dalle utopie internazionaliste. I ragazzi italiani che vissero questa esperienza furono circa un centinaio. Erano tutti figli di dirigenti del PCI o di militanti detenuti nelle carceri italiane o impegnati in attività politiche a Mosca. Per molti di loro destinati a rimanere soli, il padre era il partito. Anche i figli dei dirigenti comunisti venivano registrati con lo pseudonimo del genitore. Mentre i figli dei cosiddetti “traditori”, non subirono rappresaglie, soltanto abile indottrinamento che li spingerà poi ad abiurare il padre naturale e a scegliere l’altro “padre”, quello politico. Del resto Petacco ricorda che in tutte le scuole sovietiche da tempo si insegnava ad abiurare il genitore che avesse “sbagliato”. Era un dovere del giovane comunista denunciare gli eventuali errori del padre. Accadeva anche nella Cina di Mao Tze Tung.
Veramente un capitolo a parte è quello che riguarda gli italiani in Crimea, soprattutto la comunità pugliese, che poi sostanzialmente anche loro furono sterminati, con il contributo dei comunisti italiani. Anche qui ci sono storie da raccontare, come quella di Pia Piccioni, un’altra “vedova del gulag”, come Nella Masutti, a cui gli fu negato sapere dove è stato assassinato il marito. Sull’epurazione degli italiani in Crimea da parte del NKVD, una vicenda dimenticata, ha fatto un libro Dario Fertilio, “La morte rossa”. Chiudo e vi lascio alla lettura del documentato libro di Arrigo Petacco.
DOMENICO BONVEGNA
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