Da ormai molto tempo appaiono su Facebook dei post che non devono allarmare e che potrebbero contenere anche qualche considerazione o verità da condividere. Autore è un prete, un povero prete, che non è sicuramente più “compos sui”, che vive in un solipsismo spaventoso dentro il quale si è volutamente o malauguratamente rinchiudere e dal quale non vuole o non riesce a venirne fuori.
di ANDREA FILLORAMO
Da ormai molto tempo appaiono su Facebook dei post che non devono allarmare e che potrebbero contenere anche qualche considerazione o verità da condividere. Autore è un prete, un povero prete, che non è sicuramente più “compos sui”, che vive in un solipsismo spaventoso dentro il quale si è volutamente o malauguratamente rinchiudere e dal quale non vuole o non riesce a venirne fuori.
Per lui ogni azione che si esplica all’esterno va ricondotta all’interesse personale del proprio unico Io, che è il solo a stabilire le leggi da rispettare, quelle che provengono direttamente dalla sua interiorità e che, come tali, hanno una validità più spontanea di tutte le regole che gli altri avrebbero stabilito per lui.
Ed ecco che ricorre ai social – come fanno del resto tanti – per comunicare non tanto idee, pensieri o esperienze, quanto la sua amarezza dell’essere prete ma di non riuscire a esserlo veramente.
Quel prete che lo scrivente conosce perfettamente, stando alle sue stesse affermazioni è affetto da una malattia psicotica, che si manifesta particolarmente con disturbi della sensopercezione causati – negli anni passati – dall’esonero da qualunque ufficio o ministero.
Ma è proprio questa la causa del suo malessere?
Ovviamente i dubbi e le incertezze sono tante.
È certo che la solitudine uccide più dell’obesità e dovrebbe essere considerata come un pericolo per la salute pubblica, e particolarmente per i preti che per legge ecclesiastica sono destinati ad una certa età a rimanere soli per l’infausta legge del celibato ecclesiastico, suggerendo un approccio più accurato verso la problematica.
Considerando poi che i preti di ogni diocesi, dato il mancato ricambio dei preti giovani, vanno verso l’invecchiamento il rischio è quello di una «epidemia di solitudine» che si può abbattere sul presbiterio.