Il tema della Grande Guerra mi ha sempre appassionato e interessato. Ho letto e presentato diversi libri ai mie lettori. Sulle bancarelle del Santuario della Consolata, ho trovato un interessante volume patinato, (dal notevole peso), “L’Italia e la Grande Guerra. Il 1918 La Vittoria e il Sacrificio”, Congresso di Studi Storici Internazionali, a cura del Ministero della Difesa Ufficio Storico dello SMD. In 447 pagine, comprese le immagini sono condensati gli Atti del Congresso tenutosi a Roma il 17- 18 Ottobre 2018.
Il Volume non è in vendita. L’opera riporta i vari interventi delle V Sessioni. Presentato dal Col. Massimo Bettini, Capo Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa, ha aperto i lavori il Prof Antonello Folco Biagini dell’Università La Sapienza di Roma.
Nella presentazione di copertina si fa riferimento al ciclo di congressi che lo Stato Maggiore della Difesa ha dedicato alla I Guerra Mondiale, con il 1918 sono arrivati al V° volume pubblicato. Sarebbe interessante leggere i precedenti quattro volumi. Naturalmente farò riferimento agli interventi che più mi interessano, scrivo subito che sarà uno studio abbastanza corposo. In certe occasioni non è possibile essere sintetici.
Nel convegno sono esaminati, in primo luogo, ma non solo, i relativi aspetti militari, sia quelli riguardanti i vari teatri operativi europei sia, più dettagliatamente, quelli relativi al fronte italo-austriaco.
La battaglia di Vittorio Veneto, le operazioni della Marina, lo sviluppo dell’Aeronautica e la partecipazione dei Carabinieri e della Guardia di Finanza sono oggetto di specifici interventi relativi a questo fronte, a questi temi si aggiungono due relazioni in riguardo “all’altra parte”, la guerra vista dall’Austria-Ungheria. Tra i numerosi interventi presterò attenzione a quello sul servizio P (Propaganda), i Volontari stranieri nelle Forze Armate, ai soldati di lingua italiana nell’Esercito austro-ungarico, agli italiani patrioti irredenti. Alla sessione specifica che riguarda il fenomeno dei cappellani militari. E poi vederemo se ci sarà spazio per qualche altro argomento.
I SESSIONE, il tema affrontato è stato i “Fronti del Conflitto”, presieduto dal Prof. Antonello Folco Biagini. Significativi i ricordi del tenente di artiglieria austriaco Fritz Weber per descrivere la fine del suo esercito: “Una vera e propria fiumana uscita dall’inferno di fuoco attraverso cento camminamenti, sentieri, campi […] uomini, cannoni, automobili, cavalli, carri, e di nuovo uomini […] la fiumana, nella quale ci dobbiamo immergere, per fuggire, passa vicino a noi. Avanti dunque, soltanto avanti! Chi non può camminare è perduto, chi si piega sarà polverizzato,
chi inciampa verrà gettato vivo nella tomba. La macina gigantesca degli stivali fangosi, degli zoccoli dei cavalli, delle ruote, coprirà le sue grida di aiuto e passerà sul suo corpo”.
Il prof. Hubert Heyries descrive gli aspetti politici e militari degli Italia in terra di Francia nel 1918. Mentre il prof. Alessandro Vagnini si occupa dell’ultimo atto della guerra nei Balcani, che fu quello più complesso, non solo per la durezza del terreno e le difficoltà del clima, ma perché fu l’unico dove tutti i Paesi coinvolti nei due schieramenti furono in qualche modo presenti. Il prof Paolo Pozzato relaziona “dal Solstizio a Vittorio Veneto dalla parte austroungarica. La battaglia impossibile”. Ultimo intervento della I Sessione quello del prof. Andrea Carteny parla del Congresso di Roma sulle cosiddette nazionalità oppresse, in riferimento ai popoli del rimanente Impero Asburgico. Più di un relatore accenna a questo tema dell’oppressione, che mi sembra un po’ forzoso, non sempre i nazionalismi, l’irridentismo dei popoli raccoglieva la maggioranza della popolazione. E comunque secondo il professore fino al 1917, a Parigi come a Londra, a Washington come anche a Roma, i governi considerano la monarchia danubiana come il cardine geopolitico di stabilità per l’Europa centrale e sud-orientale.
Comunque sia Roma porta avanti una forte azione politica militare, perseguendo una “politica delle nazionalità”, capace di minare all’interno l’Impero asburgico. Il giornalista e attivista francese Jean Gabrys, si è occupato del problema, promuovendo un Congresso internazionale, che ha dato voce ai movimenti di popoli e nazionalità oppresse, dall’Europa Occidentale all’Asia (catalani, e baschi dalla Spagna; irlandesi, egiziani e indiani dall’Impero britannico; lituani e lettoni dalla Russia; cechi e serbi dall’Austria-Ungheria).
Il prof Carteney si occupa dell’Italia che può contare sulle rivendicazioni irredentiste nate con il Risorgimento.“Per il governo italiano, infatti, la ‘propaganda’ di guerra costituisce uno straordinario strumento di pressione e mobilitazione dello Stato sulla società: diffusa con i giornali di trincea, riorganizzata dal 1916 con l’Ufficio “P”, promossa all’interno e all’estero, si prospetta dunque come un formidabile strumento di guerra formidabile, capace di dar corpo ad una complessa strategia da utilizzare contro il nemico”. In conclusione si può sottolineare che l’attività di propaganda italiana verso le linee nemiche, negli ultimi mesi ha prodotto il lancio al di là della linea del fronte, di circa 51 milioni di volantini e 9 milioni di giornali. Stessa cosa verso le linee tedesche. Il fattore dirompente, delle nazionalità oppresse, secondo Cartney, risulta uno dei fattori della sconfitta degli Imperi Centrali, in particolare di quello asburgico.
Il relatore fa appena un accenno all’imperatore Carlo I e al suo spirito moderno di interpretare la politica, liberando alcuni leader nazionali cechi con l’amnistia del 1917. Sono pochissimi i riferimenti al beato Carlo I che fino all’ultimo, confidando nel Papa Benedetto XV, ha cercato sempre la pace. Tuttavia i gesti di distensione del nuovo Imperatore verso le nazionalità interne non piacevano al comando tedesco. Sono convinto che andrebbe studiato il lavoro compiuto da Carlo I durante la I Guerra mondiale.
II SESSIONE. Si sviluppano gli Aspetti Militari. Alla Presidenza c’è il Prof Massimo De Leonardis. Si inizia con la relazione del Gen. B. Fulvio Poli, dove interpreta la battaglia di Vittorio Veneto ai fini dell’esito finale del conflitto. Questo perché pare che il pubblico anglosassone sia il teatro di guerra che l’esercito italiano non hanno goduto di un grande credito. In molte università ed accademie, la I Guerra Mondiale si riassume spesso nel fronte francese, quello italiano è secondario.
Naturalmente per il generale ha cercato di dimostrare che è stato importante mantenere il fronte orientale, anche perché fino all’ultimo i reparti nemici schierati in prima linea erano ancora combattivi. Anche se all’interno della Monarchia Danubiana le lotte delle nazionalità, influivano a disgregare l’Impero, “la compagine morale e materiale dell’avversario rimaneva però intatta o quasi, e accaniti soprattutto si dimostravano, e tali si dimostrarono poi anche durante la battaglia di Vittorio Veneto, ungheresi, croati, sloveni: quegli elementi appunto sui quali sembrava dovessero avere maggiore presa i dissidi di nazionalità[…]”. Tuttavia si ricorda, che “il Comando Supremo aveva la convinzione che i presunti dissensi fra le truppe delle diverse nazionalità costituenti l’esercito austro-ungarico non avessero fino ad allora intaccato in alcun modo la sua consistenza morale, la quale era rinsaldata invece dal tradizionale loro odio contro l’Italia e dalla speranza del successo finale”. Il generale Poli insiste su questo aspetto delle truppe austriache, infatti, “la promiscua nazionalità delle truppe non aveva influito, né influirà fino agli ultimi giorni delle operazioni sulla loro combattività e volontà di resistenza, che si rivelerà particolarmente accanita nella battaglia del Grappa, da parte appunto degli ungheresi, croati e sloveni”. Secondo il generale Poli, “l’esercito della duplice monarchia era ancora saldo e temibile, non disposto a cedere neanche un metro senza combattere caparbiamente”.
Il secondo intervento del C.F. Leonardo Merlini si occupa del comportamento della Regia Marina nella Grande Guerra. Interessanti le foto pubblicate a coronamento dell’intervento. Segue quello della gestione dell’Aeronautica, con gli sviluppi politici e militari. Il Col. Alessandro Della Nebbia relaziona sulla presenza dell’Arma dei Carabinieri nella Grande Guerra. E qui sui carabinieri sono stati scritti tante cose sulle disposizioni degli Alti Comandi dell’Esercito circa “i metodi ed i mezzi da utilizzarsi per mantenere la disciplina delle truppe in campo di battaglia erano durissime e intransigenti, talora draconiane, arrivando a prevedere dall’uso delle armi da parte dei carabinieri dopo un eventuale secondo rifiuto di tornare al combattimento e dall’esecuzione sommaria dei singoli insubordinati fino all’uso delle mitragliatrici e persino delle artiglierie a tergo dei reparti che avessero indietreggiato di fronte al nemico”. Naturalmente si trattava di misure che erano ben note alle truppe. “In questo clima – scrive Della Nebbia – è ben comprensibile il significato assai sinistro che assumeva la presenza dei carabinieri nelle trincee e nelle loro immediate retrovie, come spesso poi tramandato nella memoria collettiva dei soldati”. I carabinieri, quelli ausiliari, operavano anche sul fronte interno, impiegati presso le Legioni per le crescenti esigenze di ordine pubblico, turbati da scioperi e manifestazioni di piazza antimilitaristi, specie nelle città operaie, ma anche nelle campagne. “I disordini spesso legati al razionamento dei viveri e che spesso videro protagoniste le donne, avevano toccato il loro culmine nell’agosto 1917 a Torino, durante la cosiddetta rivolta del pane, con barricate nelle strade e l’intervento dell’Esercito, con un bilancio di alcune decine di morti, circa duecento feriti e un migliaio di arresti”. C’era un certo allarme per una possibile deriva sovversiva di stampo socialista, forse eccessiva. I Comandanti delle stazioni dei Carabinieri Reali interrogavano i militari che si recavano in licenza, per raccogliere elementi sul vero stato morale della truppa. Essendo io siciliano, apprendo dalla relazione che ci sono stati diversi arresti di singoli militari a bordo dei traghetti in servizio nello stretto di Messina ad opera di carabinieri spesso travestiti.
Una lunga relazione viene dedicata alla Guardia di finanza nel 1918 a tutelare il “fronte interno” curata dal magg. Giuseppe Furno. Un grande lavoro svolto dai finanzieri per alleviare le sofferenze della popolazione civile, già vessata dalla povertà diffusa e dallo spopolamento delle campagne causato dalla mobilitazione generale. “La presenza delle Fiamme Gialle nella Penisola consentì, altresì, di tutelare anche il prezioso patrimonio storico e artistico nazionale, spesso alle mercé di ladri senza scrupoli i quali, oltre ai furti nelle abitazioni e proprietà private, non disdegnavano di depredare anche ruderi di chiese e luoghi d’arte bombardati”. Una pagina del Convegno è dedicata al Generale della vittoria: Armando Diaz, a cura del Dott. Paolo Formiconi. Fu tra i protagonisti degli ultimi dodici mesi decisivi per la storia del mondo, probabilmente quello studiato meno. Per lungo tempo rimase nell’immaginario collettivo il generale simbolo della Vittoria.
Sono particolarmente interessato agli ultimi due interventi della Sessione: “Il Servizio P. Propaganda, Assistenza, Vigilanza”, dei militari italiani, Del Prof. Gian Luigi Gatti. Anche questo abbastanza lungo. Dopo la rivolta della Brigata “Catanzaro”, fu necessario emanare una circolare in cui si esortava gli ufficiali a far comprendere ai soldati “che vi è in alto chi si preoccupa per lui, che egli non è abbandonato a tutte le correnti, che egli è un uomo trattato con comprensione umana”. Inoltre c’era la raccomandazione di ricorrere più frequentemente alle licenze, ai riposi e al ‘sano divertimento’. Due personalità capirono l’importanza di organizzare una vita sociale più adeguata per i soldati: don Giovanni Minozzi, che aprì le prime Case del soldato al fronte e il generale Luigi Capello, che istituì un servizio di propaganda. Sull’importanza del ruolo propagandistico svolto dai cappellani militari, ci sarà una relazione a parte nella sessione successiva.
Per quanto riguarda il ruolo del servizio di propaganda e di istruzione il generale Capello ha intuito l’importanza di dare delle ragioni storiche e sociali alla truppa. Con lui lavoravano diversi ufficiali intellettuali. Venne organizzata così la specifica propaganda per i soldati, ma anche per gli ufficiali, che secondo Capello, non avevano sufficiente spirito nazionale. Solo agli ufficiali venivano distribuiti libri, riviste ed opuscoli. Naturalmente per la truppa, spesso ignorante, veniva assicurato un altro trattamento. E’ molto importante questo passaggio del professore,“L’intuizione del generale non era una novità per il paese, dove soprattutto gli interventisti democratici avevano proposto di approfittare della guerra per una pedagogia di massa, ma doveva apparire rivoluzionaria nelle fila dell’esercito cadorniano, incapace di capire che la guerra mondiale aveva scardinato i criteri della guerra tradizionale anche per quanto riguarda la gestione delle truppe: non si trattava più di comandare un esercito di caserma, ma di civili in uniforme”.
Dopo la rotta di Caporetto, il comando supremo inviò in ogni armata agenti e funzionari di pubblica sicurezza per un’indagine sui militari e sulle popolazioni che risiedevano nelle zone di guerra. “L’ipotesi che a Caporetto si fosse verificato uno sciopero militare da parte dei soldati angustiava i vertici militari, che, per tutta la durata del conflitto, si preoccupavano che la propaganda pacifista non penetrasse nelle fila dell’esercito”.
Per eliminare il più possibile il malcontento occorre fare opera di propaganda ad ufficiali e soldati. Un’opera assidua di contropropaganda patriottica, affidata ad un ufficiale che doveva organizzarsi la vigilanza scegliendosi alcuni fiduciari tra la truppa e la popolazione, erano raccomandati “giornalisti”, qualche sacerdote. Si operava con conferenze, la stampa di manifesti o periodici con articoli già “preparati”. E’ chiaro che fu tra gli ufficiali ci complemento che vennero scelti gli uomini per la propaganda, anche perché avevano svolto nella vita civile, attività di giornalisti, avvocati e insegnanti. Sono state preparate ben XVI direttive al servizio P per fissare i criteri generali per la propaganda. E comunque ogni comandante di reparto deve svolgere tra i suoi soldati un’opera vera e propria di apostolato. Del resto ci sono circolari dove l’ufficiale (P) era chiamato “apostolo” e “missionario”. Secondo Lombardo Radice, che era capo di una sezione P, poi c’erano Pietro Calamandrei, Giuseppe Prezzolini, Gioacchino Volpe. Queste“ scuole di guerra”, fecero miracoli, nelle truppe spesso analfabete. Peraltro esisteva già presso le scuole ufficiali, una cattedra di pedagogia militare, dove insegnava Luigi Russo.
Piero Melograni ha ritenuto che gli ufficiali P fossero da considerare molto simili ai commissari politici russi, “parvero assumere il ruolo di vere e proprie ‘eminenze grigie’, con un alto potere inquisitore”. Del resto l’intero servizio P ebbe un carattere fortemente politico, si trattava di svolgere un compito di ammaestramento patriottico, sia nei confronti dei soldati, sia soprattutto dei contadini, in un’ottica di “rieducazione patriottica i cui fini andavano oltre la vittoria nella guerra, per giungere alla formazione di un uomo nuovo’”.
Giovanni Belardinelli, invece, paragone agli ufficiali P ai parroci, che collaborarono attivamente per promuovere la moralità dei soldati e della popolazione. “L’idea dell’italiano ‘nuovo’ era tradizionale per la giovane Italia unita, si pensi al famoso ‘fatta l’Italia bisogna fare gli italiani’, e che fu ripresa anche dal fascismo”.
Belardinelli ha posto l’attenzione sull’assistenza. Melograni invece su quella della vigilanza che caratterizzava il servizio P: “i suoi ufficiali sarebbero stati una sorta di inquisitori sia di ufficiali inefficienti sia di soldati disfattisti”. Il prof. Gatti rileva una distanza siderale tra ufficiali e la truppa semianalfabeta, che “non era limitata all’istruzione o all’aspetto economico, ma si trattava di due sistemi di valori, due Weltanschauung, profondamente differenti che comunicavano tra loro solamente con grande fatica”. Una volta conclusa l’esperienza della guerra, alcuni ex ufficiali P, cercarono di continuare quello che avevano sperimentato nell’esercito, un insegnamento civile che avrebbe dovuto continuare anche nel paese. Quella “gioiosa scuola di italianità”, come la definì Lombardo Radice, una posizione accettata sia da Prezzolini, che Jahier e dal nazionalista Volpe, che vedeva nel servizio P, un “nutrimento morale” offerto al combattente.
Conclude la Sessione il prof. Piero Crociani affrontando l’altra pagina importante degli “Stranieri in grigio-verde”. Tutti quei Cecoslovacchi, slavi, romeni e soprattutto albanesi che hanno combattuto con gli italiani.
III SESSIONE, a cura dell’Ordinariato Militare, viene affrontato il tema dei Cappellani Militari. Introduce il S.E.R. Mons. Santo Marcianò, poi il Prof. Antonello De Oto, relaziona su “I Cappellani Militari Italiani nella Prima Guerra Mondiale”. Furono circa ventimila uomini, che a diverso titolo portarono la parola del Cristo nel fango delle trincee e nella sofferenza della battaglia. Novanta sono i caduti in combattimento e tre dispersi, centodieci cappellani presi prigionieri dal nemico e ben 546 decorati. Lo Stato liberale ostile alla religione, che desiderava limitare fortemente la sua presenza in ambito militare, “dovette quindi momentaneamente cedere di fronte al bisogno di uno sforzo collettivo per vincere le resistenze del nemico austro-ungarico”. Con onestà intellettuale il marxista ateo Antonio Gramsci riconobbe come l’unico “coefficiente morale”, “che tenne insieme centinaia di migliaia di uomini impegnati nella Grande Guerra, figli di popoli pre-unitari che mai si erano sfiorati e che si conobbero in trincea per la prima volta, furono proprio i cappellani militari”. Certo piuttosto andrebbero fatte profonde riflessioni su come è stato possibile che due mondi, due popoli, entrambi cattolici si siano potuti combattere così selvaggiamente.
Pertanto nonostante un Papa come Benedetto XV che non esitò a definire “l’inutile strage”, nella I Guerra Mondiale,“un mondo ecclesiastico intero non si fece dunque di lato e si lasciò invece letteralmente attraversare dall’esperienza dura e lacerante della I guerra mondiale […] condividendo il destino di un popolo impegnato in un conflitto che per la prima volta non coinvolgeva solo coloro che avevano abbracciato il ‘mestiere delle armi’ ma popoli interi in una dimensione di conflitto mondiale”. E questo dovrebbe essere un fattore penalizzante per tutti quelli che hanno voluto entrare in guerra costringendo non solo cinque milioni di uomini mobilitati, ma un intero popolo che ha dovuto soffrire per tre anni di guerra sanguinosa, che provocato oltre 650 mila morti, (13 milioni in totale in tutti i Paesi) oltre un milione di feriti, di cui duecentosettantamila mutilati.
Successivamente Monsignor Angelo Frigerio ha curato una relazione su “Don Angelo Roncalli un sacerdote chiamato alle armi divenuto San Giovanni XXIII Papa”. Ultimo intervento, del Gen. B. Marco Ciampini, su “Il rispetto e la memoria. Il culto della vita nell’onorare i caduti”.
IV SESSIONE, con la presidenza del Prof. Giuseppe Conti, affronta “altri aspetti della Guerra”. Dopo “il ruolo delle basi navali e aree della Regia Marina nella Vittoria”, del Prof. Piero Cimbolli Spagnesi, intendo concentrarmi però sulla seconda relazione del Dott. Andrea Di Michele, che affronta un argomento che andrebbe studiato meglio, “Patrioti irredenti o fedeli servitori dell’imperatore? Immagini e realtà dei soldati di lingua italiana nell’Esercito austro ungarico durante la grande guerra”. Si tratta dei 110.000 sudditi austro-ungarici di lingua italiana arruolati nell’esercito dell’Impero e inviati a combattere su diversi fronti, in primo luogo in Galizia, sui Carpazi, in Romania. Circa 30.000 finirono nei campi di prigionia in Russia, poi alcuni di questi, circa 2.500, sorpresi dalla Rivoluzione bolscevica, furono trasferiti in un viaggio avventuroso attraverso la Russia nella concessione militare italiana di Tientsin. Al di là di queste vicende avventurose, quasi fantastiche, il caso dei soldati di lingua italiana dell’esercito austro-ungarico rappresenta un elemento storiograficamente interessante. Ci spinge a interrogarci, a ragionare sui sentimenti con cui essi partirono per il fronte, sulle loro identità, culturali, nazionali, regionali, sulle loro aspirazioni, poi sulla loro scelta per l’Italia o per l’Austria. Sono questioni ampie e complesse, che l’autore cercherà di illustrare. Iniziando in principio a descrivere i caratteri della popolazione nei decenni che hanno preceduto lo scoppio della guerra. Si inizia con un identikit dell’Impero multietnico. I componenti principali del vasto Impero erano tedeschi (il 23,9%), e ungheresi (20,2%); gli italiani rappresentavano il 2,0% (780.000). Prima dell’unificazione italiana gli italiani erano ben circa cinque milioni e mezzo, distribuiti tra la Lombardia e l’Istria, costituivano una tessera importante del puzzle asburgico, non solo dal punto di vista numerico, ma anche economico e culturale. Come per tutti i combattenti, la partenza per la guerra era sempre dolorosa, così anche per gli italiani che combattevano per l’Austria. Non mancarono le imprecazioni contro il nemico serbo e il suo alleato russo, a Trieste non mancarono le manifestazioni patriottiche contro i nazionalisti slavi e non mancarono gli assalti agli edifici di sloveni. “L’odio e il razzismo antislavo ricompattava posizioni politiche diverse e dava un senso tutto speciale alla guerra di questi italiani d’Austria”. Lo spirito con cui si partiva non era dunque sempre lo stesso, tuttavia “gli italiani d’Austria risposero diligentemente alla mobilitazione generale del luglio 1914”, lo stesso nelle altre regioni dell’Impero.“A prevalere fu il senso del dovere, l’educazione all’obbedienza alle autorità costituite, l’inerzia di fronte a un comando indiscutibile, il timore per le conseguenze di un atto di disobbedienza, la speranza in una guerra breve, per qualcuno anche la convinzione che si sarebbe combattuta un conflitto giusto, per difendere la patria”. Tuttavia Di Michele rileva che gli alti comandi austriaci erano in certo senso diffidenti dei combattenti italiani:“qualsiasi richiesta di garanzia linguistica e culturale o di autonomia territoriale era sbrigativamente considerata un’espressione d’irredentismo da stroncare senza indugi”. Non così per le autorità civili, che non ingigantivano il significato politico di ogni manifestazione d’italianità. Di questo parere era il luogotenente del Tirolo e Vorarlberg barone Markus von Spiegelfeld, che criticava gli atteggiamenti delle autorità militari, che esasperavano il clima politico, causando effetti controproducenti. Ad avviso del barone bisogna concedere all’italiano “di poter tranquillamente esprimere la sua nazionalità”, in questo modo l’irredentismo non trova nessun canale per alimentarsi. Con lo scoppio del conflitto la severità dei militari si accentuò sulle minoranze etniche. Ancora il Luogotenente a deplorare la politica punitiva, “capace solo di aumentare il distacco degli italiani dalle istituzioni e di fare propaganda all’irredentismo […]”. Inoltre, “anche per il ministero dell’Interno, andavano evitati, arruolamenti illegittimi, per non alimentare forme di malcontento nel Trentino, ma anche per non scatenare campagne di stampa antiaustriache in Italia”.
Sostanzialmente i vertici militari per Di Michele erano ossessionati per il pericolo irredentista, costantemente ingigantito. Naturalmente questo clima ha provocato gesti di discriminazione e maltrattamenti ai danni dei soldati italiani. E comunque dalle numerose lettere monitorate dai vertici militari austriaci, venne tracciato un profilo etnico di affidabilità dei vari popoli dell’Impero multietnico. I peggiori sono i cechi, mentre per quanto riguarda i soldati dell’area Alpina, gli italiani, il “cuore” della popolazione era da considerarsi “sano” e fedele all’Impero. Tra gli italiani non si registravano casi di diserzioni in massa, il rapporto sosteneva che“un eventuale referendum nei territori di confine rivendicati dall’Italia avrebbe dato un esito schiacciante a favore dell’Austria”. Di Michele si occupa dell’odissea, della dura prigionia dei prigionieri in Russia, tra Austria e Italia. Sostanzialmente erano dei prigionieri dimenticati, anche perchè c’erano forti discussioni sulla loro affidabilità.
Comunque Di Michele sostiene che tra questi italiani prigionieri, il fattore “nazionalità” era minoritario, sia che riguarda l’Austria, che l’Italia, loro si sentivano appartenenti alla propria valle, al proprio paese o città. La maggioranza di questi “italiani” era incerta sulla difficile scelta. In pratica erano “troppo italiani” per gli austriaci, poco italiani per il governo italiano.
V SESSIONE. “Prospettive del 1918. alcune strategie politico diplomatiche”. Seguono “le relazioni di chiusura” della Prof.ssa Maria Gabriella Pasqualini e del Gen. Isp. Capo Basilio Di Martino, con le sue considerazioni sulla dimensione militare del 1918. Termino con alcuni suoi punti fermi, tratti da Giulio Douhet, uno dei maggiori pensatori militari del XX secolo: “La grande guerra fu essenzialmente: guerra di popoli; sostanzialmente guerra industrializzata; formalmente: una sola, immensa e lunghissima battaglia”. Una lotta di giganti in cui la vittoria aveva premiato chi era stato in grado di “portare in campo una maggiore somma di resistenza, di mezzi, di energie e di fede”. Un monito importante per il futuro sarà quello che nessuno potrà dire: “armiamoci e partire”.
DOMENICO BONVEGNA
dbonvegna1@gmail.com