di Davide Romano
La notizia è di quelle che fanno tremare secoli di storia: Justin Welby, l’arcivescovo di Canterbury – figura che per gli anglicani rappresenta grosso modo ciò che il Papa è per i cattolici – ha annunciato le sue dimissioni. Il motivo? Aver taciuto per oltre un decennio su uno dei più gravi scandali di abusi sessuali che abbiano mai colpito la Chiesa d’Inghilterra. Una vicenda che si intreccia con una crisi ben più ampia che sta investendo tutte le chiese protestanti europee, dalla Germania alla Francia, in quello che appare come un terremoto destinato a ridisegnare la geografia del cristianesimo nel Vecchio Continente.
Il caso che ha fatto cadere Welby è uno di quelli che i britannici chiamerebbero “a perfect storm”. Al centro della vicenda c’è John Smyth, un rispettabile avvocato londinese che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 conduceva una doppia vita: brillante professionista durante la settimana, predicatore nei campi estivi cristiani nel weekend. Ed è proprio in questi campi che Smyth ha perpetrato quello che il rapporto Makin – pubblicato l’11 novembre 2024 – definisce come “attacchi continui, brutali e orribili” su oltre 130 tra bambini e ragazzi.
I numeri sono agghiaccianti. Secondo le testimonianze raccolte dalla commissione indipendente, Smyth aveva elaborato un sistema metodico di abusi che si è protratto per anni, prima nel Regno Unito e poi, quando le prime voci iniziarono a circolare, in Zimbabwe e Sudafrica. Nel paese africano fu persino accusato della morte di un sedicenne nel 1992, ma il caso venne archiviato con quella sollecitudine che spesso caratterizza i casi scomodi nelle ex colonie britanniche.
La Chiesa sapeva? Certamente. Un’indagine interna del 1982, condotta dall’Iwerne Trust (l’organizzazione che finanziava i campi estivi), venne prudentemente insabbiata. Il Winchester College, una delle più prestigiose public school britanniche frequentata da molte delle vittime, si limitò a vietare a Smyth l’ingresso nei suoi locali. Nessuno pensò di avvertire la polizia. Del resto, come recita un vecchio adagio anglicano, “lo scandalo è sempre peggiore del peccato”.
Ma è nel 2013 che la storia assume contorni più foschi. In quell’anno Welby, appena nominato arcivescovo di Canterbury, viene informato delle accuse. La sua reazione, secondo il rapporto Makin, fu caratterizzata da “una netta mancanza di empatia” e “una tendenza a minimizzare la questione”. Solo nel 2017, quando un documentario televisivo porta alla luce l’intera vicenda, la polizia apre finalmente un’indagine penale. Ma Smyth muore nel 2018, all’età di 75 anni, portando con sé nella tomba i suoi segreti.
Il caso Welby non è un episodio isolato. In Germania, la Chiesa evangelica (EKD) sta facendo i conti con numeri ancora più impressionanti: 2.200 vittime accertate di abusi dal 1946 a oggi, con stime che potrebbero arrivare a 9.000 casi. Un terzo degli abusatori identificati sono pastori e vescovi, gli altri operatori che lavoravano per organizzazioni ecclesiastiche. Lo scandalo ha già provocato le dimissioni della presidente Annette Kurchus e ha spinto l’EKD a investire 3,6 milioni di euro in un programma di indagine e prevenzione.
In Francia, la situazione non è migliore. La Chiesa protestante unita (EPUdF) ha dovuto aderire alla Commissione di riconoscimento e riparazione, stabilendo un tetto di 60.000 euro per i risarcimenti alle vittime. Come ha spiegato Antoine Garapon, presidente della Commissione, “non si può riparare una vita spezzata da uno o più atti violenti. Ciò che offriamo è una forma di riparazione simbolica”.
La crisi sta mettendo in luce le contraddizioni profonde del protestantesimo contemporaneo. Come ha notato Valérie Duval-Poujol, vicepresidente della Federazione protestante di Francia, esistono “fattori aggravanti” specifici: rapporti di potere squilibrati, una sopravvalutazione della figura pastorale, tabù sulla sessualità e disuguaglianze di genere profondamente radicate.
Per la Chiesa d’Inghilterra, la situazione è particolarmente delicata. Non dimentichiamoci che questa non è una chiesa qualunque: è la chiesa “established”, quella stabilita per legge, il cui capo supremo è il sovrano stesso. Le dimissioni di Welby aprono quindi una crisi istituzionale senza precedenti. La procedura per la sua successione è un capolavoro di bizantinismo britannico: la “Crown Appointments Commission” dovrà selezionare due nomi da sottoporre al primo ministro Keir Starmer, che ne sceglierà uno da far approvare da re Carlo III.
Tra i papabili c’è Stephen Cottrell, arcivescovo di York, che con i suoi 67 anni potrebbe essere considerato troppo anziano. C’è poi Guli Francis-Dehqani, vescovo di Chelmsford, che avrebbe il doppio primato di essere donna e favorevole alle aperture verso la comunità LGBT. Una scelta che potrebbe però risultare problematica per le chiese più conservatrici del Global South, già in aperta ribellione: nel 2023, dieci arcivescovi africani hanno dichiarato che non avrebbero più riconosciuto l’autorità di Canterbury.
I numeri raccontano una chiesa in profonda crisi. Dal 2013, quando Welby è diventato arcivescovo, la Chiesa d’Inghilterra ha pubblicato una serie di rapporti sulla gestione dei casi di abusi. Quasi tutti hanno trovato prove di occultamento e tentativi di proteggere la reputazione istituzionale a scapito delle vittime. Nonostante investimenti significativi in programmi di tutela e prevenzione, la maggior parte dei sopravvissuti afferma che la risposta della chiesa è stata “incoerente e spesso dannosa”.
Le cifre del declino sono impressionanti: la frequenza alle funzioni domenicali è crollata del 27% negli ultimi dieci anni. Solo il 12% dei britannici si identifica oggi come anglicano attivo, contro il 40% di appena trent’anni fa. L’età media dei fedeli supera i 65 anni.
La Chiesa d’Inghilterra è sopravvissuta a molto nei suoi quasi cinque secoli di storia: ha resistito alla Rivoluzione puritana di Cromwell, ha superato l’illuminismo e la rivoluzione industriale. Ma questa crisi è diversa. Non riguarda dogmi teologici o rituali liturgici, ma la capacità stessa della Chiesa di proteggere i più vulnerabili e di essere all’altezza dei propri principi morali.
Il prossimo arcivescovo di Canterbury erediterà una chiesa profondamente divisa: tra progressisti e conservatori, tra Nord e Sud del mondo, tra la necessità di modernizzarsi e il peso della tradizione. Dovrà anche fare i conti con una società britannica sempre più secolarizzata, dove il cristianesimo rischia di diventare, come ha scritto recentemente l’Observer, “un’anticaglia culturale più che una forza spirituale viva”.
Come ha ammesso lo stesso Welby nelle sue dichiarazioni di dimissioni, c’è “un profondo e sentito senso di vergogna per gli storici fallimenti”. Parole che suonano come un epitaffio non solo per la sua carriera, ma per un intero modo di concepire l’autorità ecclesiastica. La domanda ora non è se la Chiesa sopravvivrà – probabilmente lo farà – ma in quale forma. E soprattutto, se saprà ritrovare quella voce morale che, come ha notato amaramente la vescova di Newcastle Helen-Ann Hartley, sembra aver perso “quando non siamo stati capaci di mettere ordine in casa nostra”.