Il dubbio cattolico: La rovina della Chiesa è iniziata con il Concilio Vaticano Secondo?

di ANDREA FILLORAMO

Un amico di vecchia data mi ha fatto pervenire un’email, in cui, fra l’altro, mi scrive: “non so come comportarmi con il mio parroco che in una sua omelia ha sostenuto che la rovina della Chiesa è iniziata con il Concilio Vaticano Secondo e con la contestazione che ne è seguita”.

Rispondo volentieri all’email inviatami dall’amico, che mi dà l’occasione di riflettere sul grande avvenimento per la Chiesa Cattolica, che è stato il Concilio Vaticano Secondo, avvenuto nei primi anni del 1960, e su quel fenomeno che nel post concilio ha avuto come protagonisti quelli che con un’etichetta comoda e introdotta soprattutto dai mezzi di comunicazione, sono stati chiamati: “cattolici del dissenso”. Il “dissenso” consisteva in una serie di posizioni rispetto a quelle delle gerarchie, che hanno avuto origine dal tentativo di rinnovamento del mondo cattolico generato dallo stesso Concilio.

Esso si è manifestato in Italia e all’estero e ha interessato una serie di esperienze piuttosto variegate, dall’azione di taluni prelati, all’attività intellettuale di certe riviste, all’attivismo di gruppi e comunità di base, cioè di quei gruppi di credenti cristiani che miravano ad una pratica, a loro dire, “più evangelica e più credibile” rispetto a quella della cosiddetta Chiesa istituzionale.

Decisiva è stata allora l’aspirazione ad una Chiesa “povera”, spogliata dei privilegi mondani, tematica emersa con forza già durante il Concilio, e che i dissidenti cercarono di mettere in pratica con l’impegno sociale, con la scelta di vivere ed operare nelle fabbriche, nelle periferie urbane e globali.

È estremamente difficile e forse impossibile, dopo cinquanta anni per chi l’ha vissuto in prima persona,  riferire o scrivere, in modo esauriente (ci vorrebbero volumi interi come è avvenuto per la “Storia del Concilio Vaticano II” edita da “Il Mulino” curata da Alberto Melloni e costituita da parecchi volumi), sul Concilio e sulle temperie culturali, gli avvenimenti, le ragioni e le dinamiche che hanno contrassegnato, all’interno della più generale mobilitazione di una intera generazione, avvenuto attorno al  mitico 1968, anno simbolo della contestazione anche civile, che ha investito anche la Chiesa, che con il Concilio aveva cercato di modernizzare, non la dottrina, ma il “modus vivendi et operandi “ dei cattolici.

Contro la marea nata dal dissenso nelle fila del clero e dei movimenti cattolici, che da allora mai, fino ai nostri giorni si è fermata, e che pian piano ha trasformato anche le forme espressive della fede , la Chiesa ha cercato, in tutte le maniere, di fare argine ad alcuni abusi, prodotti da quanti non mancarono di  pensare che i decreti del Concilio Vaticano Secondo, fossero lasciati alla loro libera lettura e interpretazione, facendo venir meno o limitando la stessa funzione e missione della Chiesa, che è quella di essere, come nell’Enciclica di Giovanni XXIII: “Mater et Magistra”.

Si tenga conto che sono stati quelli gli anni, nel campo della Chiesa, dell’inizio della “diaspora” di molti preti che lasciavano il ministero, che ai nostri giorni sono circa 80.000 nel mondo; dei preti operai; della “teologia della liberazione”; della “teologia della morte di Dio”; della “secolarizzazione”, che avanzava in modi e forme diverse.

In campo civile sono stati quelli gli anni: della legge del divorzio; dell’obiezione di coscienza; della libertà sessuale e della legalizzazione degli anticoncezionali, che erano foriere di grandi trasformazioni, che indubbiamente toccavano anche la Chiesa.

Ai vertici della Chiesa, intanto, si faceva strada l’idea che un’apertura alla contemporaneità, come quella portata avanti da certi ambienti post-conciliari, avrebbe condotto il cattolicesimo a perdere la propria identità.

Di conseguenza molti presero le distanze da questa visione dell’“aggiornamento” e (ri)lessero il Concilio nella tradizione tridentina per interpretare quei punti che potevano apparire di rottura con l’insegnamento precedente.

Per questa ed altre ragioni, alla fine di un processo convulso e non privo di contraddizioni, frange importanti dell’Istituzione Ecclesiastica decisero di marginalizzare, o condannare una parte del movimento conciliare, pretendendo di porlo “fuori” dalla Chiesa: un tentativo in parte riuscito e in parte fallito, visto il risultato che questa parte più radicalmente fedele al dettato conciliare riuscì a realizzarsi nella testimonianza ecclesiale.

Questo fiume in piena, talvolta anche sotterraneo, ha attraversato i pontificati di Paolo VI, di Giovanni Paolo I, di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI, fino all’avvento di Papa Francesco, un Papa da definire rivoluzionario, che passerà, quindi, alla storia come un pontefice di rottura, convinto che lo scarto tra le attese di riforma che venivano dal Vaticano II e la loro concreta attuazione era diventato col tempo insopportabile ed opprimente e che la Chiesa, pur con alcuni cambiamenti operati dagli immediati predecessori di Papa Bergoglio, rischiava lentamente di strutturarsi ed organizzarsi sempre di più su un modello anacronistico, preconciliare.

Egli, con la sua parola, con il suo esempio, con il suo stile di vita, e con fatti concreti e facilmente controllabili e mai vincolati dalla segretezza (vecchio costume curiale), con la condanna non solo a  parole della pedofilia clericale e della corruzione all’interno della Chiesa, ha cercato e continua a cercare di far comprendere, pur fra difficoltà, accuse, lotte intestine che non gli danno tregua, che il Concilio Vaticano II può essere ed è ancora il motore di tutte le dinamiche ecclesiastiche e che la Chiesa per dirsi cristiana deve necessariamente essere la chiesa dei poveri.

A tal proposito, nessuno può facilmente dimenticare l’esclamazione uscita dalle sue labbra, il 16 marzo 2013, mentre rievocava pubblicamente le circostanze che l’avevano indotto alla scelta del nome: Francesco, quando esclamò: “Ah, come vorrei una Chiesa dei poveri, per i poveri!”.

Possiamo affermare con certezza che con Francesco una diga sicuramente è crollata e che se anche non ci dovesse essere il paventato scisma da parte di una fetta del mondo cattolico più tradizionalista, appoggiata da vescovi statunitensi della “corte” dell’ex Presidente USA Donald Trump, la Chiesa che Papa Francesco, quando Dio vorrà, lascerà, sarà sicuramente molto diversa da quella che ha trovato all’atto della sua elezione.

Con uguale certezza possiamo anche affermare che, con Papa Francesco, quelli che fino a pochi anni fa erano princìpi non negoziabili, secondo lo spirito del Concilio, sono stati accantonati; che la morale tradizionale ha ceduto il passo al principio dell’ accoglienza, valevole sia nei confronti dei migranti, sia nei confronti di fedi e visioni del mondo; che sentirsi rifiutati, percepirsi scartati, è una ferita grave dell’intimo, che viene, cioè, colpita la stima di noi stessi; che una morale sessuale esigente lascia il posto alla simpatia verso quanti si sentono o sono diversi.

La morale sessuale – il Papa dice “è spesso causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna (…) I giovani riconoscono che il corpo e la sessualità sono essenziali per la loro vita e per la crescita della loro identità (…) tuttavia, in un mondo che enfatizza esclusivamente la sessualità, è difficile mantenere una buona relazione col proprio corpo e vivere serenamente le relazioni affettive”. Sono queste ed altre le affermazioni del papa che obbligano i teologi della morale cattolica di riscoprire il valore della sessualità, liberandola dal peso della sessuofobia che ha dominato per secoli preti e laici cattolici.

Il Papa, inoltre, è convinto e cerca di far passare il concetto che le donne hanno la stessa dignità degli uomini, che possono accedere agli ordini sacri minori e forse – ma esprimo soltanto un mio pensiero non sufficientemente suffragato da una ricerca storico-teologica – potranno nel futuro, giacché per la Chiesa oggi i tempi non sono maturi, accedere al presbiterato.

Il male assoluto, per Papa Francesco, è il clericalismo, che è il cancro che con le sue metastasi blocca tutto, frena tutto, inaridisce non solo la vita delle comunità cristiane ma la fede stessa.

Papa Bergoglio vuole una “chiesa in uscita”, senza preconcetti nei confronti di un mondo a volte ostile, spesso indifferente al messaggio, una Chiesa in grado di fuoriuscire dalla sua autoreferenzialità, per affrontare il mondo, dando priorità alle periferie economico-esistenziali del pianeta.

Anche in questo tristissimo momento in cui la pandemia ci aggredisce, il messaggio di Papa Francesco è moto semplice, quando dice: “Dall’esperienza della pandemia tutti stiamo imparando che nessuno si salva da solo. Abbiamo toccato con mano la fragilità che ci segna e ci accomuna. Abbiamo compreso meglio che ogni scelta personale ricade sulla vita del prossimo, di chi ci sta accanto ma anche di chi, fisicamente, sta dall’altra parte del mondo”.