Il giornalismo è (o era) il mestiere più bello del mondo

di Davide Romano

“Il giornalismo è un inferno, abitato da persone che hanno trovato il paradiso.” Con queste parole, pronunciate in una sera d’autunno di troppi anni fa, un mio vecchio capo redattore mi introdusse a quello che sarebbe diventato il mestiere della mia vita.

Trent’anni sono passati da quando varcai per la prima volta la soglia di quella redazione fumosa, dove il ticchettio delle macchine da scrivere componeva una sinfonia disordinata ma irresistibile. Erano gli anni in cui i giornali si facevano ancora con l’inchiostro sotto le unghie e la carta carbone tra le dita, quando le notizie arrivavano dai telescriventi che sputavano nastri infiniti e le fonti si coltivavano nei caffè della città.

Non c’erano smartphone, né internet, né social media. C’era solo la necessità impellente di raccontare la verità, o almeno di avvicinarsi il più possibile ad essa. La verità: quella cosa scomoda che spesso fa arrabbiare tutti, segno che probabilmente ci si è andati vicino.

Il giornalismo di allora era un mestiere da artigiani. Si imparava sul campo, sbagliando e correggendo, sotto lo sguardo severo di chi ci aveva preceduto. Si imparava che una notizia non è tale finché non è verificata almeno tre volte, che le fonti vanno protette come il bene più prezioso, che le parole hanno un peso specifico e vanno usate con la precisione di un chirurgo.

Oggi, mentre osservo i giovani colleghi armeggiare con tablet e algoritmi, mi chiedo se l’essenza di questo mestiere sia cambiata. La risposta è no. Il cuore pulsante del giornalismo rimane lo stesso: la curiosità insaziabile, la voglia di capire, il desiderio di raccontare.

Come diceva Montanelli: “Il giornalismo è il mestiere più bello del mondo, se lo si fa con dignità. Il più pericoloso, se lo si fa senza scrupoli.”

In questi trent’anni ho visto cadere governi e nascere rivoluzioni, ho raccontato tragedie e trionfi, ho intervistato potenti e diseredati. Ma soprattutto, ho cercato di mantenere fede a quel principio fondamentale: raccontare i fatti, tutti i fatti, nient’altro che i fatti. Con onestà, con rigore, con passione.

E dopo trent’anni, quando qualcuno mi chiede se ne è valsa la pena, rispondo sempre allo stesso modo: il giornalismo non è un mestiere, è una malattia. Una malattia meravigliosa e incurabile, che ti consuma ma ti tiene vivo. E io, felicemente, non ho nessuna intenzione di guarirne.