Il libro per i lettori di IMG Press: Fuoco sotto. Fuoco sopra

Romanzo culinario d’appendice settimanale e d’appendicite cronica. Scritto da M. Gavio Fano Galt…

 

Capitolo 1.

 

“Nel frigorifero non c’era niente,

nel forno troneggiava una teglia

con quattro enormi porzioni di pasta ‘ncasciata,

piatto degno dell’Olimpo,

se ne mangiò due porzioni,

rimise la teglia nel forno,

puntò la sveglia,

dormì piombigno per un’ora…”

(Il cane di terracotta, Andrea Camilleri)

 

<<Ciao>>.

Si emozionava sempre nel rivedere l’ultima scena del film “I due nemici”.

Ricevere l’onore delle armi chiamato alla guerra oltre la volontà.

Graduato oltre la capacità in campo, logoro oltre la stracciata divisa, sconfitto oltre la evidenza del limite. Petto in fuori. Il destino – secondo un anonimo africano – si alza almeno un’ora prima di te. L’italiano, come sapeva bene l’Albertone nazionale – è un destinato.

Un saluto, salendo su un treno di deportati in partenza, sgorgato dal cuore dell’ufficiale interpretato da Sordi.

Ciao. Una voce rotonda e fragorosa. Un sorriso che esprime tutta l’umanità, tutta la simpatia e tutto l’orgoglio, di un popolo. La disfatta nel conflitto è già riposta nel deposito bagagli della stazione della storia.

L’orizzonte della libertà si spalanca per un intero Paese. Il Bel Paese che sarà.

Non era ancora nato quando la pellicola veniva proiettata nei cinema.L’aveva vista decenni dopo in tv. Rete privata. Rete locale. Classica commedia proposta di mattina tra una televendita di batterie da cucina e una di corredi dotali.

La prima volta, quel giorno, non era andato a scuola. Mal di pancia strategico. Interrogazione in vista. Meglio acqua e alloro, rimedio della nonna, che un quattro nel registro della insegnante di matematica.

L’ultima volta, quel giorno, non era andato al lavoro. Mal di testa strategico. Camera con vista. Meglio un voluttuoso incontro in un albergo a ore con terrazza su Isolabella che la redazione di un verbale di una riunione pallosa.

Nella attesa, si era disteso sul letto uso matrimoniale e aveva aperto il televisore scorrendo i canali.

Un sms sui titoli di coda. <<È tornato mio marito. Scusa. Ciao”.

Eligio aveva messo in conto una buca. Non era affatto amareggiato.

Apparteneva alla razza di chi predilige un corpo velato al corpo nudo, ciò che si intravede a ciò che si distingue nitidamente, lo scorcio al panorama, la trama immaginata al fatto vissuto, un’anima da penetrare, intrigando accarezzando graffiando, a fianchi da trattenere per esercitare un possesso da dietro.

Tuttavia, quel ciao lo aveva infastidito.Era privo di poesia.

Eligio Castagna, professionista di mezza età, era riservato, schivo, discreto.

Di origine medio borghese aveva compreso tre cose.

L’educazione paga.

Le relazioni che contano, contano.

La differenza la fa lo sceglierle il selciato meno battuto.

Non gli interessava vivere a lungo ma vivere intensamente. Assaporava Eligio. Godeva del profumo. Il profumo di un fiore, di una salsa, di una essenza, di un erba aromatica, di un frutto, di una cipria, di un mobile antico, di una donna. Eligio assaporava, soprattutto, le parole. Leggeva ma non divorava i libri. Leggeva lentamente. Non importava arrivare alla fine ma l’incedere, la descrizione dei luoghi, il tratto psicologico dei protagonisti, il fermo immagine del dettaglio, la cernita di sostantivi e attributi. Le parole sono pietre. Lo sapeva bene Eligio. Anche piume, anche farfalle, anche arcobaleni. Sopratutto chiavistelli per accedere negli ambiti, nei nascondigli, nei labirinti delle sfumature più recondite.

Caleidoscopico era il mondo delle parole per raccontare di Sicilia e Siciliani. Caleidoscopico nella asciutta essenzialità di Leonardo Sciascia, nella sofisticata ridondanzadi  Vincenzo Consolo, nell’epica e nel mito di Stefano D’Arrigo, nell’aulico innesto dialettale di Andrea Camilleri, nella penombra tragicomica di Luigi Pirandello, nel distacco verista di Giovanni Verga, nella lirica ermetica e sconfinata di Salvatore Quasimodo, nel nitido affresco noir di Federico De Roberto, nella tessitura avvincente di Luigi Natoli, nell’allegorico astratto furore di Elio Vittorini, nella rimembranza non indulgente di Dacia Mariani, nella diceria distatici viaggi perfetti di Gesualdo Bufalino, nella eloquente sfida agli ismi di Luigi Capuana, nella dissacrante ironia di Vitaliano Brancati e di altri, altri e altri ancora indigeni, esploratori e conoscitori, di una Trinacria ritratta con pennini, calamai, sfere e tastiere. Sicilia da cui partire, esodando; in cui restare, esondando; in cui ritornare, esortando.

Eligio scorreva nei e discorreva dei loro libri, letti o anche solo sfogliati ad ogni crisi sentimentale. Si può dire che la conoscenza di un autore era intimamente connessa ad una delusione d’amore. Ad ogni amore non corrisposto o finito si tuffava nelle viscere della terra ove pasce il gregge del sole.

Anche solo sfogliati? Si. Si era riconciliato con i sensi di colpa per libri acquistati ma in attesa annosa di lettura. Erano, comunque, di conforto. Disposti nella libreria, adagiati su una mensola, in bilico su un comodino, accatastati in un cesto, a portata di mano accanto a una poltrona. Di conforto come una tazza di cioccolata calda o come uno scialle. Di conforto nella intrinseca natura vegetale della rimembranza direbbe Umberto Eco.

Ah le parole. Parola alle idee. Idea di parole. Idee e parole sovvengono quando le rendite se ne vanno. In Sicilia idee e parole, parole e idee si sposano in un abbraccio avvolgente. Talvolta, come un tessuto prezioso. Talvolta, come le spire di un serpente. Talvolta, come un bouchet di fiori di zagara.

Un abbraccionobile e antico.

Dante, già Dante Alighieri, nel De vulgari eloquentia sosteneva che “Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. 

Scoccata l’ultima ora prenotata in albergo, Eligio’ si allontanò. Non vi era più lancetta disponibile ad accettare una sosta protratta nella Perla dello Ionio.

Aveva fame. Già assaporava con il pensiero ciò che chimicamente – come amava ripetere – doveva mangiare. A prescindere. A prescindere dall’orologio biologico. Perché Eligio scomponeva nella sua testa tutti gli ingredienti di una ricetta. Se veniva richiamato dalla chimica dei suoi elementi entrava in una sorta di astinenza. Eligio comprendeva le voglie delle donne incinte. Il suo fianco, del resto, era macchiato da una voglia caffellatte di cappuccino.

Rientrato nella città in cui dimorava, avendo percorso il manto autostradale più dissestato del pianeta, ricordavache in una traversa delViale vi era un panificio che proponeva piatti pronti.Entrò. Il tepore del locale lo accolse benevolmente. Lanciato uno sguardo alle teglie già calde scorse la immancabile pasta al forno. Era quello che cercava. Come un cane da tartufi aveva puntato diritto. Non si era sbagliato. Era buona d’aspetto. Sapientemente incastagnatanello strato superiore con una crosticina superficiale,  procace di tutto quello che si aspettava.

La pasta al forno è la versione moderna di uno dei piatti più tipici di Messina … la pasta ‘ncasciata o ‘ncaciata alla messinese.

E’ il piatto della festa, della domenica, del picnic, della spiaggia, del Ferragosto.

“Vorrei ordinare una porzione … facciamo due”.

“Certo signore” rispose la commessa.

“Senta”.

“Dica”.

“Una domanda”.

“Prego”.

“Avete avuto coraggio?”

“In che senso?”

“Nel senso che in tutte le ricette si consiglia per la cottura della pasta, prima di disporla nella teglia con tutti i condimenti a strati, di cuocerla in abbondante bollente acqua salata per metà del tempo indicato nella busta”.

“Eh!?”

“Per me, invece, al massimo si deve tenere due minuti; quattro se la pasta, che – chiaramente – non deve essere fresca, deve cuocere oltre i dodici minuti”.

“Guardi dovrebbe parlare in cucina ma al momento siamo indaffarati”.

“Non si preoccupi. Perdoni se le ho sottratto del tempo”.

“Di niente. Buongiorno”.

“Indaffarati? Stavo impartendo una lezione!”. Pensò tra se e se. Eligio coltivata una intima simpatia per commesse e commessi, cameriere e camerieri. In genere per tutti coloro che lavorano dietro un banco o servono ai tavoli. Faceva il tifo per loro. Immaginava che prima o poi avrebbero messo su una attività propria. Occorreva osare ma occorreva, anzitutto, curiosare.

Dopo avere pagato, Eligio si allontanò pensando di raggiungere immantinente casa per scartare l’involucro di alluminio.

Non aveva attesa di una preparazione con tutti i sacramenti o con prodotti tipici, presidio del mangiare bene e del mangiare lentamente.

Però la prima impressione era positiva.

Aveva notato che il formato era rigorosamente liscio. Lui prediligeva la “catanisella”. Era fatta con il ragù. Base il tritato di carne bovina di “seconda”. Occorreva percepire se metà anche con suino. Difficilmente, con il maialino nero dei Nebrodi. Probabilmente, il formaggio grattugiato era grana o parmigiano. Tuttavia, la tradizione avrebbe richiesto il caciocavallo, meglio il pecorino canestrato, meglio ancora il maiorchirno di Novara di Sicilia.

Non aveva adocchiato i piselli. D’altronde davvero facoltativi. Confidava all’interno in una certa corrispondenza tra il quantum della pasta e quello del tritato, una robusta dose di melanzane, uova sode tagliate in quattro parti, salame “nostrano” (difficilmente Sant’Angelo di Brolo) a listarelle.

Sarebbe stata una bella sorpresa le melanzane a fette, piuttosto che a cubetti, tagliate per il lungo di mezzo centimetro, mantenendo la buccia, fritte in olio di semi. Le melanzane, preferibilmente quelle violetta, devono anzitutto perdere l’acidulo liquido di vegetazione. Pertanto, spunte dei culotti estremi, dopo essere state suddivise, occorre disporle – per esempio in uno scolapasta – per essere spolverizzate diffusamente con il sale marino, per poi essere gravate non meno di mezz’ora con un peso. Eligio, per comodità, utilizzava per esercitare pressione la pentola di cottura della pasta ripiena dell’acqua che sarebbe poi dovuta andare a bollore. Indi, tamponate e/o strizzate prima della immersione nell’olio di semi bollente.

Il ragù con il tritato da rosolare sembra quasi scontato partendo dallo sminuzzare finemente carota, sedano e cipolla da imbiondire con olio extra vergine d’oliva, facendo sfumare il tutto con vino bianco secco da fare evaporare prima di aggiungere la salsa. Basterebbe solo la cipolla per evitare contaminazioni romagnole. In verità, in molte famiglie si utilizzava e si utilizza carne da sfilacciare (la migliore parte, così come per lo spezzatino, è la candela) cotta in salsa che era d’obbligo fare in casa lavorando il pomodoro con il passaverdure e aggiungendo l’immancabile basilico, rendendola densa a fuoco basso per oltre novanta primi. Si potrebbe dire sale, pepe, basilico, concentrato di pomodoro q.b.. Alloro? Una foglia.

Per Eligio, la costruzione della pasta al forno era opera d’architettura. Strutturale la tendenziale aritmetica proporzione tra pasta e tritato. Un primo velo di ragù sul fondo. Uno strato di pasta precedente unto con parte del sugo. Una generoso lenzuolo di ragù, con o senza piselli. Una imbiancata di formaggio. Una geometrica distribuzione di uova sode, salame (va bene anche la mortadella … per i palati più delicati il prosciutto cotto), scamorza o provola a pezzetti (primo sale, tuma, ragusana) affinché si sciolga. Il primo strato coperto da melanzane. Ancora formaggio grattugiato. E poi il secondo strato. Infine, il terzo solo con la pasta condita e formaggio in copiosa pioggia. Besciamella? Negletta!

Ventinqueminuti in forno preriscaldato a centottanta gradi e cinque minuti di grill.

In precedenza, prima del forno, ai tempi dello strutto, in capiente tegame di terracotta la pasta veniva cotta con brace sotto e brace sopra.

La ricetta odierna si dissocia rispetto all’originale, che prevedeva un preparato con polpettine di manzo, pollo e fegatini. Con il sugo si condiva la pasta; la carne veniva servita come seconda pietanza.

Non chiedete dosi. Le iniziazioni con questo piatto sono blasfeme. Basta solo sapere che nella pasta al forno non si può lesinare. La pasta al forno è un inneggiante barocco trionfo propiziatorio di simpatia e amicizia che solo chi sa danzare,destreggiandosi senza confusione mentale, tra fornelli e taglieri può riproporsi al netto di telefoni, citofoni e cellulari…

Continua