Sta facendo discutere il presepe allestito in Piazza S. Pietro. L’opera è un dono della città di Castelli (Teramo) centro famoso da secoli per le sue ceramiche. Il presepe è stato realizzato tra il 1965 e il 1975 dai docenti e alunni dell’Istituto d’arte “F.A. Grue”. Nella sua interezza è composto da 54 grandi statue, tra cui figurano anche un islamico, un rabbino ebreo, un astronauta e persino un boia (in riferimento alla pena di morte) ma solo alcune figure sono esposte a San Pietro.
Si tratta di un’opera moderna, che probabilmente non è stata apprezzata, visto che in rete, si stanno manifestando diverse critiche. Sulla pagina di Vatican news, si leggono solo commenti negativi, peraltro identificandoli con il pontificato di papa Francesco.
Probabilmente e non scrivo altro, sarebbe stato apprezzabile un presepe in linea con la tradizione. Tuttavia, papa Francesco l’anno scorso ha dedicato una lettera apostolica la “ADMIRABILE SIGNUM”, sul valore del presepe, firmata proprio presso la grotta, al Santuario di Greccio, dove nel Natale del 1223 S. Francesco organizzò la prima rappresentazione della Natività.
In un’epoca come quella contemporanea, dove la secolarizzazione e gli eccessi del politicamente corretto ci hanno ormai abituato a notizie sui simboli cristiani della Natività proibiti nei luoghi pubblici, papa Francesco intende “sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe” e “la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze”. Il papa esprime l’augurio che “questa pratica non venga mai meno” e che “possa essere riscoperta e rivitalizzata” là dove fosse caduta in disuso. E’ una pratica che si impara da bambini, quando i genitori e i nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine.
La lettera apostolica del papa contiene una ricostruzione storica di quanto avvenne nella notte del 1223 nella valle del reatino. Il Poverello d’Assisi, scrive Francesco, con l’invenzione del presepe realizza “una grande opera di evangelizzazione” capace di arrivare fino ai nostri giorni “come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità”.
La lettera apostolica passa poi ad analizzare il significato dei singoli segni che compongono generalmente la rappresentazione della Natività. Naturalmente nel documento non mancano i riferimenti alla salvaguardia del creato e la predilezione per i poveri irrompono anche in questa bella tradizione e lo testimonia la collocazione delle “montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori” e delle “statuine simboliche (…) di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore”. “I poveri sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi”, mentre “il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Il papa nel presepe fa spazio a figure che non hanno relazione con i racconti evangelici.
Tuttavia, il presepe riporta alla mente l’attesa per il suo allestimento negli anni dell’infanzia e dunque alla famiglia, ovvero il luogo privilegiato per la trasmissione della fede. Per papa Francesco, “Non è importante come si allestisce il presepe,– scrive papa Francesco – può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita”.
In conclusione, il presepe è parte integrante del “processo di trasmissione di fede” che Francesco definisce dolce e al tempo stesso esigente. Questa bella tradizione che il papa a Greccio invita a non abbandonare ma, al contrario, a rilanciare laddove non più utilizzata, favorisce la nostra presa di coscienza nel credere che “Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria”.
Pertanto, non allestire il presepe nelle scuole a Natale è la negazione della nostra identità e il suicidio della nostra cultura cristiana, dei nostri valori e il rifiuto delle nostre radici. La sensibilità che ci porta ad assumere comportamenti rispettosi dell’altrui diversità, non può prescindere dal rispettare, anzitutto, noi stessi, e dal fatto che comunque il rispetto deve essere reciproco.
Da qualche anno si ripete il solito stupido e ridicolo disegno di cancellare le nostre tradizioni natalizie, in particolare quello più caratteristico: il presepe. Non mancano presidi o insegnanti che con una grande dose provocatoria, impediscono ai propri studenti anche a quelli non cattolici, di poter conoscere quel messaggio universale di pace che è il Santo Natale. Per la verità a cancellare totalmente il Natale ci aveva pensato Erode, con il suo metodo radicale, ora ci provano in tanti modi i fautori del “multiculturalismo”, della “libertà”, della “democrazia”, alla fine la scusa è quella di non “offendere” lo “zero-virgola” di alunni islamici presenti nelle scuole.
Tuttavia, il problema, in verità non viene creato da chi ha altre fedi religiose, ma da quei laicisti che non ne hanno affatto e usano come alibi il rispetto dei non-cristiani e la paura degli attentati terroristici.
Anche se c’è qualche inaspettato buon segnale da parte di “laici, come Vittorio Sgarbi che in una trasmissione proclama l’umanità nuova nata da quel Bambino e augura “Buon Natale a tutti voi che non siete nati il giorno in cui è nato Gesù Cristo, ma dovete a Gesù Cristo la vostra libertà, la bellezza, l’indipendenza della donna, tutto…”
In pratica cancellando le nostre tradizioni natalizie stiamo censurando il nostro modo
di essere e di vivere, pensando di educare i nostri ragazzi alla tolleranza. Di questo passo arriveremo ad abolire Dante, Manzoni, i dipinti dei grandi artisti, i musei, le chiese ricche di statue e di affreschi, città intere che in ogni edificio, non solo religioso ma anche pubblico, parlano di fede. Finiremo per censurarli tutti, ma così certamente non saremo più colti, più intelligenti, né più accoglienti, soltanto più aridi e infelici.
Tempo fa un dirigente scolastico si chiedeva: “Che senso ha togliere o negare ai bambini il gusto di una tradizione popolare, segno di una bimillenaria cultura, di diffusione planetaria, radicata nel sentimento, nell’arte, nella letteratura, nella storia, nella vita di ogni ceto sociale e specialmente in un paese come il nostro? Quante forme di cultura radicano nelle varie religioni e da esse traggono la loro specificità ed essenza, persino quando, nel tempo, si discostano dai loro significati originari? Perché pensare che non debbano aver spazio a scuola, se di culture si tratta? “.
Inoltre il dirigente scolastico precisava che “il presepio non è un precetto religioso; non è un atto liturgico; non è un fatto propagandistico, e nemmeno un atto di culto, per quanto di ovvia ispirazione religiosa, “ma in quanto tradizione popolare è un fatto ‘culturale’. E la cultura non si nasconde alla vista, non offende e non si occulta: si spiega. Si aiuta a capirla, a interpretarla. Il che non significa imporla. Senza chiusure per la cultura altrui, ma soprattutto senza imbarazzo, e tanto meno vergogna, per la propria”.
Allora quali sono i motivi per cui occorre spogliarsi delle nostre tradizioni, dei nostri segni? Forse per favorire il “dialogo” (parola-talismano dell’Occidente liquido) con i lontani, in questo caso, gli islamici? Non credo che riusciamo a dialogare meglio rendendoci nudi, attaccandoci a “niente”, soprattutto di fronte al credente in Maometto, erede consapevole di una grande religione come l’islam. Anzi è probabile che ci disprezzerà perché ci siamo spogliati della nostra fede, della nostra cultura. E’ una pia illusione credere che gli islamici si possano convertire alla nostra cultura occidentale, impregnata di relativismo religioso, libertà sessuale, edonismo, aborto, disordine familiare, omosessualismo, ideologia del gender e tanto altro. O forse pensiamo di corrompere o di integrare i musulmani, con il sex-shopping olandese, o il “nulla” dei Paesi del Nord Europa, ex protestanti, che ormai si sono adagiati su un paganesimo vissuto.
Non sarà forse che il problema siamo noi e non i diversi? E’ proprio così “Siamo noi che non sappiamo rendere ragione del bimbo nella mangiatoria”, scriveva l’informatore parrocchiale di Santa Maria delle Grazie al Naviglio in Milano.
Probabilmente siamo un popolo che non ha più nulla da raccontare che non ha qualcosa di caro da difendere. Peraltro, solo un popolo sa essere accogliente, altrimenti si diventa solo tolleranti. Essere tolleranti non è positivo, si tollera qualcosa che si sopporta a fatica, qualcosa che potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata. Infatti, “si tollera chi ci sta vicino, sino a quando non ci dà troppo fastidio. Invece, il cristianesimo ci educa ad accogliere”. Naturalmente, però, chi accoglie l’altro deve amare le sue differenze, per quello che è, ma nello stesso tempo non si deve vergognare di se stesso. Dunque, no alla tolleranza, si al rispetto degli altri.
Ma poi questi passi indietro, che dovremmo fare noi cristiani, non potrebbero essere un’offesa nei confronti di tantissimi martiri cristiani, non solo del passato, ma soprattutto di oggi, che continuano ad essere “trucidati perseguitati proprio perché hanno avuto il coraggio di non fare passi indietro?”. “Siamo proprio sicuri che questa spasmodica ricerca di tranquillità serva alla causa della pace?” Sono alcune domande poste ai lettori, qualche anno fa da La Nuova Bussola quotidiana.
Forse sarebbe opportuno che molti cattolici rileggessero alcuni significativi passi del Vangelo, incominciando con quello di Matteo: “non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.. Chi ama il padre a la madre più di me non è degno di me”?
Altro passo: “Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro ed ai pagani”; Oppure, “sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi persevererà fino alla fine sarà salvato»; “chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli…”.
E che dire infine, di quel “birichino di San Paolo, che ci invita ad annunciare Cristo in modo «opportuno», ma se occorre anche in modo «inopportuno?”
DOMENICO BONVEGNA