C’era una volta, nel cuore di un mese silenzioso, un viaggio che mi condusse tra le mura antiche di un monastero cattolico. Era un rifugio di pietra e di pace, immerso in un mare di verdeggiante solitudine, dove il tempo sembrava essersi fermato e il frastuono del mondo svaniva come un’eco lontana.
Ogni mattina, il sole sorgeva lento, tingendo di oro le vetrate colorate, proiettando ombre sacre sulle pareti di pietra grezza. L’aria era intrisa del profumo della terra umida e del canto degli uccelli, un’armonia naturale che invitava alla contemplazione e alla preghiera. Era come se la creazione stessa si unisse al coro delle lodi, elevando un inno di silenziosa adorazione.
Nel chiostro, un giardino nascosto rivelava i suoi segreti solo ai pellegrini attenti. I fiori sbocciavano con timida grazia, e le foglie degli alberi sussurravano storie di tempi antichi. Camminando su quei sentieri, sentivo il peso delle parole non dette, delle preghiere sussurrate, delle meditazioni profonde. Ogni passo era un invito a scoprire il sacro nell’ordinario, a vedere l’infinito nel piccolo.
Le giornate erano scandite dal ritmo delle campane, un dolce richiamo che segnava le ore di preghiera, di lavoro, di riposo. La regola benedettina “Ora et labora” si incarnava in ogni gesto, in ogni respiro. La preghiera del mattino, la lectio divina, il lavoro nei campi, tutto era permeato da un senso di sacralità. La vita monastica era un poema di semplicità e dedizione, un inno alla bellezza dell’essere presenti.
La sera, il crepuscolo avvolgeva il monastero in un abbraccio di tenerezza. Le stelle emergevano, una ad una, come lanterne sospese nel firmamento, e il silenzio diventava ancora più profondo. Le candele accese nelle celle illuminavano i volti dei monaci, riflettendo la luce interiore di anime consacrate. La comunità si riuniva per la preghiera notturna, una veglia che sembrava sfidare l’oscurità, riempiendola di speranza e di luce.
Ricordo le conversazioni sussurrate nei corridoi, i sorrisi gentili, gli sguardi che parlavano più delle parole. C’era una comunione di spiriti, un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, di eterno. Ogni momento era un dono, un’opportunità di immergersi nel mistero della fede, di trovare pace nella preghiera, di scoprire Dio nella quiete.
Quel mese trascorso nel monastero cattolico fu un viaggio nell’anima, un ritorno alle radici della spiritualità. Fu un tempo di rinnovamento, di introspezione, di riscoperta della bellezza del silenzio e della preghiera. Come disse San Bernardo di Chiaravalle: “Troverai più nei boschi che nei libri; gli alberi e le rocce ti insegneranno ciò che nessun maestro potrà mai dirti.”
E così, alla fine di quel mese, lasciai il monastero con il cuore colmo di gratitudine e serenità, portando con me la saggezza del silenzio, la bellezza della preghiera e la consapevolezza che, a volte, bisogna perdersi per davvero ritrovarsi.
Davide Romano