di ANDREA FILLORAMO
Prendiamo tutti atto che stiamo vivendo il momento, che ancora non sappiamo quanto durerà, più drammatico della nostra vita. La pandemia, causata da un virus, di cui poco o nulla si sapeva, come una bufera immane, si è abbattuta su di noi; in poco tempo ha distrutto quanto con fatica avevamo costruito in termini economici, di strutture sanitarie, di rapporti sociali, di benessere anche se caratterizzato dalla disuguaglianza e dall’ingiustizia distributiva.
Ci siamo tutti ritrovati in un grande deserto dove regna il silenzio, la paura, dove ad ogni soffio di vento drizziamo l’orecchio, in attesa che ci raggiungano voci che ci suggeriscano quale sarà il nostro futuro, che finora è ignoto.
Rimaniamo, intanto, ancora in casa, continuiamo a cambiare le nostre abitudini, a essere preoccupati per lo studio e il lavoro; sospendiamo ogni attività socio-culturale e ricreativa, scopriamo la paura per la salute propria e degli altri, sperimentiamo la nostra vulnerabilità a causa di un nemico invisibile che travolge tutti: ogni età, confine, cultura, condizione sociale.
È questo, indubbiamente un tempo nuovo e di prova per tutti: anziani e giovani, uomini e donne, siamo accomunati da questa situazione e insieme ci ritroviamo a lottare, ciascuno con la propria capacità e forza.
Stiamo vivendo un grandissimo esperimento evolutivo.
Non c’è dubbio che di tutto questo conserveremo i segni più nella coscienza che nei corpi.
Come in tanti altri momenti tragici della nostra vita, si fa sentire in noi il senso religioso che sempre ha trovato uno spazio di rilievo in tutte le costruzioni sociali che formano le comunità umane.
Esso si pone sotto forma di domande, che, in quanto uomini ed in quanto esseri sociali ci poniamo.
Esse sono le stesse domande che Leopardi poneva nella bocca del suo pastore errante: perché c’è il dolore? Che senso ha la vita? Perché nonostante tutto continuiamo a fare figli? Che c’entro io con il creato? E soprattutto: io chi sono?
Di fronte a questi interrogativi, l’esperienza religiosa si propone come una risposta che il credente ritiene adeguata a fare intravedere un percorso che traduce in sensatezza ciò che appare insensato, in ordine ciò che appare casuale, in compagnia ciò che è solitudine, in sicurezza ciò che è rischio.
La religione, o meglio la fede, è percorso di salvezza individuale ma è anche percorso di formazione di identità collettive.
La razionalità dell’uomo religioso è in un percorso di verifica di “convenienza” ad interpretare la sua esistenza con i parametri dettati da un credo.
Fintantoché il credere aiuta a vivere è ragionevole continuare a farlo.
Se qualcosa c’è stata e continua ad esserci, è fuor di dubbio che ciò dipenda dal fatto che la religione svolga una funzione sociale, una funzione che non trova altri e più adeguati strumenti che la possano sostituire.
Da sempre l’uomo ha invocato Dio per avere aiuto e conforto in caso di malattie gravi.
Oggi egli continua con l’affidarsi a Dio e all’intercessione dei Santi – e fa bene – ma, nel contempo, deve prendere atto del “silenzio” di Dio che non ama essere considerato un “tappabuchi” e raramente interviene a interrompere le leggi della natura, che l’uomo è invitato a conoscere per lottare e vincere anche le malattie gravi, inclusa la pandemia.
Bando, quindi, a una religione miracolistica! Dio, per il credente può compiere i miracoli se vuole e quando vuole. Gesù non è venuto per dire: d’oggi innanzi tutti guariti. Non dimentichiamo che il miracolo è un fermare la legge della natura; la natura è stata creata da Dio ed è buona.
Sono pochi, per fortuna, oggi quelli che fideisticamente si rivolgono alla Madonna della Salute, che durante la grande epidemia di peste bubbonica che colpì tutto il nord Italia tra il 1630 e il 1631, venne invocata a Venezia dal governo della Repubblica con una solenne processione di preghiera che durò tre giorni e tre notti. Pochi oggi credono che nel giro di poche settimane l’epidemia iniziò a placarsi fino a scomparire.
Pochi o nessuno oggi invoca San Rocco di Montpellier, che è stato il santo più invocato in epoca medievale in occasione delle epidemie di peste, che per secoli flagellarono l’Europa. Egli è stato ritenuto il santo patrono dei contagiati, degli appestati, degli ammalati, ma anche degli emarginati, dei viandanti, così come degli operatori sanitari e dei farmacisti.
Tutti oggi conoscono, ma si limitano ad invocare Sant’Antonio Abate che non è solo protettore degli animali domestici ma nei secoli è stato invocato, anche lui, contro la peste.
Così pure: Santa Rosalia, una santa tuttora cara ai fedeli in tempo di epidemie.
Molti preti oggi non sono più i propagatori di una religione devozionale, miracolistica, impossibile, in un periodo di pandemia, anche a realizzare.
Essi e non facilmente si rassegnano, avvertono la prova di celebrazioni eucaristiche senza la gente, di oratori senza ragazzi, di mense per i poveri senza ospiti e volontari.
Avvertono, altresì, il disagio di aver sospeso tante iniziative e incontri pensati e preparati e a cui erano ormai ben abituati e lo smarrimento, a causa di una inattività forzata nell’esercizio del loro ministero, li ha totalmente presi.
Li prende, anche, spesso un senso di passività che aumenta davanti alla tragedia di persone ricoverate con gravi sintomi del Covid-19 e senza conforto degli affetti più cari e della fede con la presenza dei familiari e di un sacerdote.
Essi sono, quindi, costretti al silenzio ma nel silenzio, senza le folle che l’applaudono, parla sempre Dio.