Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?

di ANDREA FILLORAMO

Arriverà – ne siamo sicuri – il dopo Covid-19, se parteciperemo tutti alla campagna vaccinale, che, dopo le incertezze iniziali, sta procedendo e se rispetteremo le norme di protezione e di difesa dal contagio che ci sono state date. Finirà la paura e ci sarà il ritorno della socialità, che è quello che adesso e per molto tempo ci è mancata.

Lo sappiamo e ne abbiamo fatta esperienza: abbiamo bisogno degli altri come del pane per vivere, che non è soltanto un modo di dire. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista “Nature Neuroscience”, infatti, i nostri bisogni sociali, di comunanza e di scambio con gli altri essere umani, fatto di vicinanza e di contatti, accendono nel nostro cervello le stesse aree stimolate dalla fame. Fame di cibo, dunque, socialità come cibo per la mente. Senza la socialità, perciò, la nostra mente rischia di spegnersi.

Lo sappiamo e ne abbiamo fatta esperienza: senza i contatti dei corpi, che significa star vicini, non essere distanziati, cercare il calore e il fiato degli altri è, perciò, un’esigenza naturale della quale non si può fare a meno. Il corpo, infatti, è ciò che di più intimo c’è nella nostra vita, è ciò che più di ogni altra cosa ci appartiene: se togli il corpo e i rapporti fra i corpi non sai più chi sei.

Ce lo insegna la filosofia di tutti i tempi: il corpo, è, la cassa di risonanza della realtà e del mondo che entrano dentro di me e mi attraversano. L’affetto, il sentimento, l’emozione non sono pertanto l’espressione solitaria e narcisistica della mia interiorità che già conoscerei indipendentemente dalle mie relazioni; essi invece prendono carne e parola solo in quanto sono generate dalla risonanza in me di ciò che è altro da me.

Ecco il punto essenziale: più imparo a dire io, più in realtà mi riconosco impastato con gli altri e più imparo a riconoscere una comunanza con gli altri uomini che ne fanno parte.

Infine, il corpo è di per sé spazio di dedicazione, di prossimità, di generazione, dunque è il segnale di una giustizia della cura che è davvero possibile onorare con tutto se stessi.

Bastano questi pochi accenni per cogliere che la socialità, di cui sentiamo bisogno, è parte di noi, ci precede e al tempo stesso esprime quei molti legami di cui siamo costituiti e non può essere preclusa per molto tempo.

Arriverà il dopo Covid-19 e saremo, allora, però obbligati a ripensare la nostra vita e a ribaltare molte prospettive, che sono state quelle che ci hanno orientato.

Molto dipenderà – ne sono sicuro – dalle risposte che riusciamo a dare, fin da adesso, ai problemi economici, istituzionali, sociali, ma specialmente alla capacità di ciascuno di adattarsi alla vita, che non sarà più la stessa, sulla capacità di reagire, credere in se stessi e affrontare il mondo nuovo, a dare l’addio a quella fragile ipertrofia dell’io con cui tutti o molti di noi siamo cresciuti.

Ci renderemo conto che molte delle difficoltà nell’affrontare la pandemia sono una conseguenza della ‘vita di prima’ e anche di tratti psicologici e culturali che si sono imposti, che non ci aiutavano certo né a sentirci felici né a stare bene con gli altri.

Superato questo triste momento, magari potremo organizzare modalità diverse e migliori, con meno pretese e più coerenza con gli aspetti fondamentali dell’esistenza, con la gradualità che sarà necessaria e compatibile con l’andamento della vita.

Il ‘dopo’ insomma è un’opportunità per impostare i rapporti con gli altri a un maggiore rispetto e tolleranza reciproca. 

Dopo aver perduto molta della nostra socialità, sarebbe bello ritrovarne una, magari più sana, meno improntata a egoismi e superficialità.

È questa forse un’utopia, ma per la quale vale la pena di impegnarsi, rammentando quanto Gesù dice: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,34ss).