di ANDREA FILLORAMO
Mi lascia molto esterrefatto la notizia che quanto è avvenuto in Sicilia nella comunicazione settimanale delle Regioni all’Istituto Superiore del Ministero della salute, contenga il fatto che i numeri e le percentuali dei morti, dei guariti, di quanti sono in terapia intensiva, dai quali vengono prescritte le zone rosse, arancioni e gialle per controllare il contagio e la diffusione del coronavirus, vengano volutamente, per motivi politici ed economici locali, falsificati da chi istituzionalmente è chiamato a garantire la nostra salute e particolarmente la vita di quanti, per questa insana scelta, vengono condannati a morte sicura.
Continuano, infatti a emergere dettagli raccapriccianti sull’inchiesta relativa ai dati falsi sui contagi da Coronavirus in Sicilia che ha portato all’arresto di tre funzionari della Regione e che vede indagato l’ormai ex assessore alla Salute.
Tutti abbiamo letto le intercettazioni che sono venute fuori, dove si parla di storie di morti “spalmati” e anche di morti che “scutuliamo”. Nell’ordinanza del Gip c’è, infatti, un passaggio in cui la Dirigente dell’Osservatorio epidemiologico della Regione Siciliana, parla al telefono con un altro indagato e dice “Hou? …Vidi che sunnu assai! a terapia intensiva diminuisci … picchì ce li scutuliamu…picchì morunu”. I decessi e non le guarigioni, insomma, sono la ragione della diminuzione della terapia intensiva.
Mi fermo particolarmente sul verbo “scutuliari” molto usato in Sicilia, anche in senso metaforico, col significato di “lavarsi le mani”, “non prendersi la responsabilità”, “tenersi lontani”, “io non c’entro!” etc, con cui i siciliani richiamano l’immagine di chi affacciandosi alla finestra o dal balcone di casa “scutulia”, dopo pranzo o cena, la tovaglia, cioè la scuote in modo che non resti appiccicata una briciola.
Terribile immagine se sono stati “scutuliati” i tanti morti che figli, mogli, mariti e nipoti piangono.
Nessuno pensi che questo atteggiamento di fronte al mondo e alla vita sia solo tutto siciliano, “realismo fatalista”, cioè che fa sì che i siciliani vivano in una sorta di “eterno presente”, senza guardare al futuro con speranza.
Nessuno pensi, ancora che quell’espressione della Dirigente dell’Osservatorio epidemiologico della Regione Siciliana sia un’espressione dovuta all’ironia tipicamente anch’essa siciliana.
L’ironia dei siciliani non può, infatti, mai essere un distacco anche dalla pietà, da se stessi, dal proprio destino; un’ironia che può essere malinconica o perfino tragica, sottile come un rasoio, contenente anche un certo humour noir, ma mai crudele. Scherzare insomma è lecito e piacevole, ma non con la morte, fatidica compagna dei nostri giorni, che adesso fa sentire il suo fetido fiato alle nostre spalle.
Mi si permetta di fare una considerazione: sono tanti e non solo siciliani che davanti a enormi tragedie come le migliaia di morti per il coronavirus, ai quali si aggiungono le centinaia di migliaia di morti per catastrofi naturali, le migliaia di morti per incidenti stradali, come anche le molte vittime del femminicidio, milioni di bambini che muoiono di fame etc… in cui la reazione emotiva sembra essere attenuata, quasi che si diventi assuefatti ai grandi numeri, abituati ad una contabilità di morte nella quale i numeri prendono il posto dei nomi e dei volti.
È questo un allarme che dobbiamo lanciare: il principale nemico della civiltà umana, è l’insensibilità del cuore, l’indifferenza verso la sofferenza altrui, l’incapacità di condividere le necessità vitali dell’altro, l’incapacità di dar valore alla vita, in tutte le sue manifestazioni.
La mancanza di compassione è il vero cancro del genere umano, la vera pandemia che si diffonde sempre più, ciò che maggiormente preclude la realizzazione personale, sociale, civile, democratica.
Se questo vale per tutti, vale particolarmente per i cristiani, che non possono mai chiudersi nell’indifferenza.
In tal senso è l’invito di Papa Francesco rivolto in una delle tante omelie della Messa a Casa Santa Marta. La compassione ci porta sulla via della “vera giustizia”, salvandoci così dalla chiusura in noi stessi.
Tutta la riflessione parte dal brano del Vangelo di Luca 7,11-17 nel quale si narra dell’incontro di Gesù con la vedova di Nain che piange la morte del suo unico figlio, mentre viene portato alla tomba.
L’evangelista non dice che Gesù ebbe compassione ma che “il Signore fu preso da grande compassione”, nota il Papa ed è come se dicesse “fu una vittima della compassione”.
C’era la folla che lo seguiva, c’era la gente che accompagnava quella donna ma Gesù vede la sua realtà: è rimasta sola oggi e fino alla fine della vita, è vedova, ha perso l’unico figlio.
È proprio la compassione, infatti, a far capire profondamente la realtà.