di ANDREA FILLORAMO
L’Umanesimo ha costruito la civiltà occidentale come essa è giunta fino a noi, pur con le sue contraddizioni e i suoi immancabili errori. Tra i suoi traguardi, raggiunti solo in parte, ma almeno idealmente accettati da tutti, ci sono: la liberazione dell’individuo, i suoi diritti, la democrazia sempre incompiuta, i diritti universali. La storia della Chiesa cattolica, invece, ha seguito una strada inversa dall’Umanesimo e si è tenuta, quindi, ben lontana e spesso in conflitto con la modernità.
Per tal motivo la Chiesa ha preferito infilarsi in un complicato labirinto dogmatico, facendo passare l’idea che “non ama presentare le sue secolari vicende in termini di discontinuità, di rotture e che le rivoluzioni” e ancora che ”i mutamenti epocali sono fenomeni estranei alla sua cultura intrisa di costanti appelli alla tradizione, all’immobile magistero dei Padri, alle eterne certezze del Depositum Fidei, alla sua simbolica auto rappresentazione agostiniana di popolo di Dio peregrinante nella città terrena”.
Contro la modernità si è alzata la voce di Ratzinger, al quale non è possibile non rivolgere anche un doveroso riconoscimento d’essere stato forse il più grande teologo dell’ultimo secolo, che ha affermato che la modernità, in quel che ci sarebbe di buono sarebbe figlia del cattolicesimo, sicché, giunge a dire che “anche l’ethos dell’Illuminismo (…) vive dell’influenza postuma del cristianesimo, il quale gli ha trasmesso le basi della sua razionalità e della sua struttura interna”. (Ratzinger, 1987).
Ratzinger ha svelato così, e lo svelerà ancor di più da Papa, il paradigma di fondo di una parte della Chiesa: la paura della storia e ha manifestato la persistenza ostinata di un modello di autocomprensione della Chiesa.
Diciamolo con chiarezza: Benedetto XVI ha ritenuto da cardinale e da Papa, anche rispolverando dall’armadio papale abiti caduti ormai in disuso e paramenti utilizzati dal suo lontano predecessore Pio IX, l’ultimo Papa re dello Stato Pontificio, che la Chiesa, in cui lui era Pontefice, non aveva alcuna autorità, se non quella di ripetere stancamente quello che è stata nel passato.
Da qui la “sporcizia”, venuta fuori negli ultimi anni e “tenuta nascosta sotto il tappeto” per tantissimo tempo e la conseguente crisi, alla quale egli stesso aveva contribuito in maniera determinante durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II, di cui era strettissimo collaboratore, che ha l’ha colpito in pieno.
Da qui, inoltre, la sua incapacità di reggere le sorti della Chiesa in quel determinato momento storico: invece di osare fino al limite dell’eresia, come farà il suo successore sentendosi accompagnato dallo Spirito e fare proposte di soluzione, aprire, cioè, cammini di rinnovamento e prospettive che inauguravano il nuovo, diventava sempre di più autoreferente.
Tardi forse si è reso consapevole che le ragioni della difficoltà di una declinazione culturale e del riconoscimento del cattolicesimo nello spazio pubblico odierno è la prima e la più grande questione che la Chiesa deve affrontare e non solo in termini teologici.
Non ci meravigliamo, quindi, se alla domanda su cosa ci fosse da aspettarsi dal suo pontificato Papa Benedetto risponde ad un giornalista: “Da me? Non molto. Io sono un uomo anziano le mie forze diminuiscono. Credo che possa anche bastare quel che ho fatto”.
Ed ecco quello che è stato l’inusuale “gran rifiuto” di dantesca memoria incompreso da tanti.
Vito Mancuso, tuttavia, così commenta le dimissioni di Papa Benedetto XVI: “A me colpisce innanzitutto l’aspetto umano del gesto del Papa, un uomo che fa i conti con se stesso, con quello che lui è e con quello che lui deve fare. E componendo questa addizione si rende conto che i conti non tornano, traendone le ultime conseguenze. È una grande lezione che a molti uomini di potere farebbe molto bene soppesare immagazzinare” (…) Mi sembra che ci siano elementi per poter parlare non dico di rottura, ma certamente di un gesto innovativo”.