di ANDREA FILLORAMO
Parto da una semplice constatazione, che può essere condivisa da quanti attraverso e-mail mi invitano a prendere, ancora una volta, posizione sul celibato ecclesiastico. A loro con estrema chiarezza dico: I preti finché vogliono esercitare il ministero, devono osservare, obtorto collo, la castità e il celibato, come segno di “essere nel mondo ma non del mondo” (cfr. Gv 15, 18-21).
Questa è la legge imposta ai preti, che per quanto da molti ritenuta iniqua e priva di fondamento evangelico e, quindi, per quanto nata nel lontano passato da ragioni pratiche per evitare, cioè, che i problemi ereditari interferissero nell’amministrazione del patrimonio ecclesiastico, è divenuta uno strumento di potere usato per rinsaldare i vincoli della disciplina ecclesiastica che si è avvalso anche di motivazioni ascetiche non facilmente condivisi da tutti.
Da ciò forse le tristi vicende degli scandali e degli abusi sessuali, di cui i preti si rendono protagonisti, che non rappresentano, perciò, singoli episodi di deviazione ma sono il frutto di quella cultura prettamente clericale, della quale sino stati imbevuti, che non riconosce dottrinalmente che la sessualità rivesta un ruolo fondamentale nella vita individuale e si configuri come un elemento preponderante della vita umana; che rientri, inoltre, tra i bisogni fisiologici fondamentali dell’uomo, al pari della sete e della fame e pertanto ne subiscono le conseguenze.
Che quello degli abusi sessuali e della stessa pedofilia sia un fenomeno strutturale clericale, ormai nessuno lo può negare. Basta, infatti, passare in rassegna la copiosa mole documentaria, che si avvale di fonti archivistiche, giornalistiche, giudiziarie, di produzione letteraria e scientifica, per porci al cospetto di una realtà così torbida da indurci a voler rovesciare la “volontà di sapere” in “volontà di non sapere”.
Così scrive, appunto Michel Foucalt, in La Volonté de savoir (1976), saggio in cui lo storico e filosofo francese esamina come si sia formato il campo di conoscenze chiamato “sessualità“, quali pratiche e istituzioni abbiano contribuito a generarlo e quali conseguenze coercitive abbia comportato.
Per tali ragioni la Chiesa oggi, nonostante alcune aperture del Concilio Vaticano II, non riesce ad affrontare spregiudicatamente il problema del celibato.
È chiaro un fatto: molti sono i preti che, data la loro formazione, si dimostrano incapaci di affrontare i problemi che nascono dall’osservanza della legge celibataria ma anche quelli che la vita imporrebbe loro, nel caso in cui il celibato fosse abolito.
Ci vorrebbe, quindi, una rivoluzione nella Chiesa, che metta in discussione la stessa figura del prete.
Proprio così, l’ha detto don Mazzi, in un’intervista: “Ci vuole una rivoluzione. Abolirei la parola prete innanzitutto. Sostituendola con quella di pastore. I tempi sono cambiati. Il prete di una volta era un sant’uomo che organizzava i funerali e le messe. Oggi bisogna avere una visione sociale e politica con la p maiuscola diverse. La priorità dev’essere la testimonianza di fede attraverso gli esempi. E chi dice che un sacerdote sposato non possa darla migliore di uno votato alla castità?”. “Il prete non deve essere un distributore di sacramenti; questi ultimi li possono dare anche i laici. Abolire anche i seminari. I parroci vengono indottrinati come polli. Non siamo impiegati delle Poste. Il prete dev’essere un profeta che deve proporre modi di vivere, far capire quanto sia bella la vita, quanto sia importante viverla bene. Attraverso l’amore, la fede e la bellezza. Abolirei anche il concetto di peccato che è troppo categorico. Usare il verbo “sbagliare” sarebbe un’altra cosa. La gente ha bisogno di perdono, non di sentirsi appellare come peccatrice”.
Don Mazzi conclude dicendo: “Ecco perché dico che dobbiamo interrogarci tutti. Per davvero”.