di ANDREA FILLORAMO
“Mi domando: cosa ha fatto Aupetit di così grave da dover dare le dimissioni? Se non conosciamo l’accusa non possiamo condannare. Quale è stata l’accusa? Chi lo sa? Prima di rispondere, io direi fate l’indagine, perché se è stato condannato, chi lo ha condannato? L’opinione pubblica, il chiacchiericcio. Cosa ha fatto? ’Non sappiamo, qualcosa’. È stata una mancanza di lui, una mancanza contro il VI Comandamento, non totale, ma di piccole carezze, massaggi che faceva alla segretaria, questa è l’accusa, questo è il ricatto. Così Aupetit è peccatore, come sono io, come è stato Pietro. Pietro è il vescovo su cui Gesù ha fondato la Chiesa. E come mai la comunità del tempo aveva accettato un vescovo peccatore? Era una chiesa normale, era abituata a sentirsi peccatrice, era una Chiesa umile. Si vede che la nostra chiesa non è abituata ad avere un vescovo peccatore, facciamo finta di dire il mio vescovo è un santo. Ma tutti siamo peccatori”.
Così ha commentato il Papa le dimissioni dell’arcivescovo di Parigi Mons. Aupetit.
Questa affermazione di Papa Francesco ha stupito chi non si addentra facilmente nei meandri di un modo di essere dei preti e dei vescovi, cioè di un mondo, clericale, la cui psicologia non può ovviamente sfuggire al Papa, che si è assunto il compito non facile di operare sostanziali cambiamenti che incideranno se non nel presente, almeno nel futuro, che si spera non sarà molto lontano.
Cerchiamo, per quanto possibile, come richiesto da alcuni, di interpretare le parole del Papa, andando al di là di quello che, a commento, hanno detto alcuni media che hanno evidenziato erroneamente un distacco di Bergoglio da quanto da lui stesso sostenuto in interventi precedenti.
Certamente non sorprende più di tanto che i cattolici rimangano colpiti dagli scandali sessuali e che i giornali parlino dei protagonisti, che sono preti e vescovi, partecipi ed elementi attivi di un sistema, che m’azzardo a chiamarlo “sclerotico”, proprio di una Chiesa, quella Cattolica, che nel passato ha permesso o ha tollerato che tali scandali avvenissero, tant’è che ha fatto sì che essi andassero avanti per decenni e nulla ha fatto, come ho sempre sostenuto, per un cambiamento radicale della dottrina della sessualità, che ha condizionato per molti secoli la vita non solo dei credenti.
L’esercizio della sessualità, pertanto, come è stato nel passato, rimane sempre ed è ancora lo scoglio e non solo per la legge del celibato, alla quale i preti sono obbligati, ma per la conseguente astinenza sessuale accettata o imposta, sulla quale essi in quanto fatti come tutti “in carne e ossa”, facilmente possono inciampare.
Da qui il velo protettivo, che può essere anche ipocrita, con il quale essi si coprono o la Chiesa stessa li copre, con il quale necessariamente la riservatezza sessuale su azioni, pensieri, fantasie, atteggiamenti e tendenze, assume per loro un particolare e specifico valore esistenziale e psicologico che li induce a nascondersi e a nascondere tutto ciò che è legato o può essere legato al “reale” esercizio, accentuando, così, non solo la curiosità talvolta malsana ma anche il chiacchiericcio di quanti mai hanno creduto alla loro castità.
Includono in esso anche il mondo affettivo, che, se non viene ben gestito e se non è soffocato, può condurre all’ ”anoressia affettiva”, che è il rifiuto del desiderio di stabilire relazioni affettive anche le più semplici, le più innocue, della cui intensità, esclusività e durata hanno paura, provano rabbia o anche ripugnanza.
Perciò, gli anoressici considerano l’istinto una miseria umana, il desiderio sempre una mancanza, ogni tipo di relazione di una gravità e un peso in realtà inesistenti.
Essi non tengono conto o non sanno che è possibile l’esistenza di una intersoggettività dolce, tenera, leale, aperta e leggera e che ognuno può dare secondo le proprie possibilità, in cui coesistono: bellezza, intelligenza, tenerezza, devozione, pazienza, e così via, senza magari infrangere alcun comandamento o precetto o legge della Chiesa.
Gli anoressici vogliono bandire o domare le proprie esigenze affettive, essere costretti a reprimere un potenziale evolutivo di cui privano se stessi e il mondo intorno a loro.
Quanti siano i preti, i vescovi e i cardinali che soffrono di questa patologia, non lo possiamo sapere. Sono molti? Sono pochi? Sicuramente, data la formazione ricevuta nei seminari, sicuramente ci sono, anche se essi non lo ammetteranno mai, giacchè e lo ripetono continuamente che sono, a tutti i livelli “uomini come tutti gli altri”, quindi con le stesse passioni, con gli stessi desideri e sentimenti.
Siamo certi, però, che è possibile – ciò vale non solo per i preti ma per tutti – che le emozioni e la ragione possano non diventare estranee fra di loro, anzi è certo che la ragione può diventare tanto più forte quando si coinvolge attivamente nel mondo ma anche fuori dal mondo delle passioni, quindi, che anche i preti e i vescovi, nel loro agire quotidiano si possono confrontare con il corpo, con il loro sentire, i loro vissuti, con ciò che esprimono e producono.
I gesti dell’ ”aver cura degli altri”, che, in ultima analisi è lo scopo del ministero presbiterale e in modo più ampio di quello episcopale, sono mediati dal contatto e non sempre essi si svolgono nella ricerca dell’incontro “reale”, diciamolo pure “ sessuale” con l’altro.
Trasformare la gestualità quotidiana, ingentilire i gesti, tramutandoli da gesti di presa in gesti di invito, amorevoli e teneri, rappresenta la base su cui costruire una modalità di aver cura in cui corporeità ed affettività non sono negate, ma riconosciute e valorizzate.
Che ci siano molti sacerdoti abusatori o pedofili, è una verità che non può essere negata ma non significa che tutti, o la maggior parte dei sacerdoti, perché gentili e amorevoli, magari oltre misura, siano tali.
È questo, sicuramente, uno stereotipo pericoloso e ingiusto: il fatto che una determinata percentuale di un gruppo agisca in una certa maniera, non significa che l’intero gruppo, o la maggioranza del gruppo, agisca nella medesima maniera.
Recentemente sui social media, accanto a notizie vere e documentabili concernenti vizi e difetti dei preti, c’è stato un fiume di “fango” gettato su loro, un’opera di linciaggio nei loro riguardi, consistente in una grande quantità di commenti che hanno fatto diventare anche piccoli gesti, fors’anche di debolezza, di superficialità, fatti gravi, deplorevoli.
Di ciò non c’è da stupirsi, dopo certi commenti da parte degli opinionisti anche cattolici, che appaiono anche nelle televisioni pubbliche e private, che di tutte le erbe usano fare un fascio e non tengono conto delle speculazioni che delle informazioni spesso distorte fanno gli approfittatori, che non perdono occasione, per lucrare, accusando ingiustamente e calunniando anche preti innocenti.
Non mancano, infatti, persino seminaristi che “buttati fuori” dal seminario per indegnità che volendo rientrare ed essere riammessi, giacchè non trovano piena accoglienza nel loro ambiente o non trovano lavoro perché mancanti di titoli professionali, si impadroniscono di notizie e si rivolgono al tribunale per essere, addirittura, risarciti di danni solo immaginari prodotti da inesistenti preti pedofili o da altri.
Concludendo: già da qualche tempo, all’interno della Chiesa, si possono cogliere alcuni segnali della svolta bergogliana.
Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha scritto che “tra la Chiesa e il piacere oggi c’è un rapporto più sereno”; che “il piacere e il godimento non li ha creati il diavolo, ma sono parte del piano divino”; che “il cristianesimo non è affatto contro la passione e la gioia del piacere che deriva dal soddisfacimento della passione”.
Occorre forse del tempo per far penetrare questi concetti che – sono certo – cambieranno la vita non solo dei preti ma di tutti i cristiani.