di ANDREA FILLORAMO
Più volte Papa Francesco ha alzato la sua voce invitando i preti a guardarsi dal carrierismo, contro il quale anche Benedetto XVI più volte aveva invitato a non cedere a tale tentazione che «consiste sempre – ha detto – nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali».
Sulla “mania”, prettamente clericale di far carriera, mi piace rammentare un aneddoto che si riferisce ad un Papa a me molto caro, Giovanni XXIII, che nel suo secondo concistoro creò otto cardinali. La lista dei nomi fu proposta dal Segretario di Stato e l’unico aggiunto personalmente dal Papa fu quello di Francesco Marano. Tale scelta pontificia risulta maggiormente significativa leggendo quanto scrisse lo stesso Giovanni XXIII nella sua agenda: “12 novembre, giovedì […] Buone intese con Tardini circa nomina definitiva 8 cardinali nel prossimo Concistoro. Anche Morano vi è compreso a 86 anni, insensibile ad ogni considerazione che rinunziando gli farebbe tanto onore coram Deo et hominibus (davanti a Dio e agli uomini). Ho preferito da mia parte rendere omaggio senectuti (vecchiaia) anche se questa si accosta alla fatuitas mentis (fatuità della mente). Povero Morano: meglio lasciarlo morire in senectute bona (buona vecchiaia): che funestare in amaritudine (nell’amarezza) i suoi ultimi anni» (Giovanni XXIII, Pater amabilis. Agende del pontefice, 1958-1963, ed. critica a cura di M. Velati, Bologna 2007, p. 61).
Ma il cardinalato è l’ultimo gradino della scala gerarchica della Chiesa, tant’è che dalla lista dei cardinali nei conclavi si sceglie il Papa. Il primo gradino è quello dei monsignori che sono lieti di distinguersi dai comuni preti vestendo talari con colore rosso.
Mi è stato riferito che un arcivescovo ogni qual volta andava a Roma – e così credo facciano altri vescovi – comprava presso un Ufficio ad hoc, titoli di monsignore e rientrando nella sua diocesi li distribuiva a piene mani a preti frustrati, per soddisfare quella che Papa Giovanni chiamava la fatuitas mentis, che può essere anche una mania, un pallino, un’idea fissa, una bizzarra abitudine di distinguersi dalla massa dei preti.
Di questi ne ho conosciuti più di uno.
Uno, però, in particolare ha attratto la mia attenzione, quando ho saputo che il “monsignorato” è diventato per lui non solo un titolo personale di cui si fregia ma anche familiare che ha condiviso con la sorella.
Su questo fatto ho scritto, nel 2016, un articolo su IMGPress, che più di uno mi ha chiesto di rileggere, contenente un simpatico racconto che sicuramente potrebbe sembrare frutto della fantasia, inquinata dal pregiudizio, ma assicuro che non è così. Quel monsignore è vero, ha nome e cognome, così pure la sorella chiamata, la “monsignora”.
In tale articolo, che ripubblico con piacere senza alcuna modifica, facevo allora notare che, secondo Pirandello, la realtà supera, di gran lungo la fantasia perché “la realtà, a differenza della fantasia, non si preoccupa di essere verosimile perché è vera”.
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IMGpress – 23 dicembre 2016
Più volte avevo contattato telefonicamente quella parrocchia cittadina, dove già nel passato mi ero recato e dove avevo avuto la sorpresa che il parroco contava poco o nulla, ma tutto doveva passare sotto il controllo della sorella, dalla quale dipendeva il buono e il cattivo tempo…
Avevo, quindi, telefonato in orari diversi, e una voce femminile dopo avermi chiesto nome, cognome e poco mancava per chiedermi l’indirizzo, nonché i motivi per i quali chiedevo del sacerdote, ogni volta, in modo deciso, con voce gracchiante, mi rispondeva:
“Telefoni più tardi… il parroco in questo momento non c’è”.
Notavo che quella donna, per farsi credere, dava sempre una marea di dettagli, che ritenevo irrilevanti, consistenti nei motivi dell’assenza del prete ed io pensavo:
“Ecco il classico ragionamento di chi è abituato a dire bugie; condisce i propri racconti con tantissimi particolari, del tutto inutili per farsi credere”.
Non potevo farmi prendere in giro. Assolutamente no! e così, senza alcun preavviso, mi recai, ancora una volta, in quella parrocchia.
Erano le ore 10,00 di un giovedì. Un sole splendido s’appoggiava con la sua luce sulla facciata della chiesa, che s’affacciava su una piazza, crocevia di diverse strade sempre affollate.
Entrando, non vidi nessuno, tranne il sagrestano, che cambiava i fiori di un altare di una navata laterale.
Mi accostai a lui e chiesi gentilmente:
“Chiedo scusa, sa se c’è il parroco?”.
Immediata fu la risposta:
“Sì…è sopra…o meglio…non c’è”.
Obiettai: “Perché questa incertezza. Mi dica: sì o no”.
Mi rispose: “Io direi di sì…ma la ‘monsignora’ vuole che io dica sempre di no”.
“La monsignora?… chi è la monsignora?”.
“Perché non lo sa? Chiamiamo così la sorella del parroco”.
Pensai: “La monsignora!!! o Dio mio!! il titolo di monsignore si estende anche al genere femminile parentale…mah! ”.
Accostandosi, poi, al mio orecchio mi sussurrò:
“Le raccomando…acqua in bocca!”.
Incuriosito, mi inoltrai nel corridoio della sagrestia.
Giunto all’Ufficio parrocchiale, la porta era aperta e notai la donna, seduta ad un lato della scrivania del primo Novecento, con cassetti e ripiani rivestiti con carta “giglio”.
Nella mano sinistra aveva l’“ovetto”, cioè l’attrezzo oggi inusuale, che serviva una volta per rammendare o riparare i calzini, con la mano destra cercava di infilarlo in una calza nera che aveva un evidente buco nel calcagno.
Quell’immagine richiamava alla mia memoria quella di mia nonna, molto brava a rammendare le calze.
Allora, però, pochi avevano la possibilità di comprare un paio di calzini, oggi sono sufficienti quattro euro che sono alla portata di tutti.
Chiesi permesso e poi mi inoltrai avvicinandomi alla “monsignora” che, con l’ago e il filo, riparava il calzino nero.
“Buongiorno! Scusi se l’interrompo, potrei parlare con il parroco?”.
“Mi dica!”.
“Cerco il parroco!”
“Sì, capisco…mi dica”.
“Dovrei parlare col parroco”.
“Quindi con Mons. xxxxxxx”.
“Preferisco chiamarlo padre e non monsignore. Oggi anche i cardinali amano farsi chiamare «padre»”.
“I cardinali, se vogliono possono farsi anche calpestare dalla gente ma a mio fratello bisogna dare rispetto… È monsignore e basta!”.
“Non credo che se uno lo chiama padre, manchi di rispetto”.
“Ma lei sa chi è mio fratello?”.
“Certo che lo so”.
“Aveva, in diocesi, un posto eccellente, sa cos’era: era ilxxxxxxxxxx. Poteva aspirare a fare il vescovo, ma qualcuno…ma!… lasciamo stare…Il vescovo, per dare il posto ad un altro……………….. egli ha detto: «Non ti preoccupare fai per ora il parroco e il canonico… ti tengo qua nel mio cuore, in attesa di tempi migliori» e così è arrivato qua, ma è sempre in attesa di……..Fortunatamente mio fratello ha una sorella”.
“Cioè?”.
“Fortunatamente ci sono io… Mia madre, prima di morire, mi ha raccomandato di assisterlo ed io non l’abbandono mai; lo curo, lo difendo. Come farebbe lui? L’altra sera aveva la febbre, 37,6. Tremava, come una foglia. Si mise a letto. Sembrava un bambino. Quanta tenerezza! Mi volle vicino, gli rimboccai le coperte, proprio come faceva mia madre, quando era bambino. Quando andai a letto erano le due di notte. L’indomani, ancora febbricitante, voleva alzarsi per celebrare la messa, ma io l’obbligai a stare a letto”.
“Chi ha celebrato la messa?”.
“Nessuno…accade spesso quando sta male. Le messe, se sono da celebrare in suffragio di qualche defunto, in assenza del celebrante, vengono sostituite con la recita del santo rosario. Sono io a farlo recitare: «Ave Maria, piena di grazia, etc…nel primo mistero si contempla…nel secondo etc…etc…». All’inizio la gente scalpitava, non voleva il rosario, esigeva la messa… ma con l’andare del tempo ha capito che anche senza la messa, con il rosario si prega per l’anima del parente defunto e danno anche l’offerta che era destinata alla messa. Danno addirittura di più. L’offerta arriva fino a venti euro. I soldi li raccolgo io”.
“Ma la messa è insostituibile…”.
“Sì…mi ascolti…è meglio non discutere su questo argomento…La gente è contenta e basta! Piuttosto mi dica…perché lei cerca mio fratello?”.
“Vorrei, come già le ho detto, parlare con lui”.
“Se vuole può parlare con me. Come ha potuto vedere io rispondo a tutte le domande”.
“Sì…è vero e la ringrazio. Ma, mi ascolti…facciamo un’ipotesi: se io volessi confessarmi con suo fratello, cosa farebbe lei?”.
“Non mi prenda per fessa. Certo che non può confessarsi con me ma con mio fratello. Per le confessioni monsignore ha stabilito un giorno e un orario ben preciso. Ci si può confessare con lui, ogni sabato dalle ore 17 alle ore 18. Anche il confessionale, come le messe, deve avere i suoi orari”.
“Ma il confessionale non è un supermercato”.
“Lei fa molte discussioni che non mi piacciono. Se si vuole confessare con mio fratello, rispetti il suo turno come, avviene, appunto, nel supermercato. Non ci sono ticket da pagare o dati gratis”.
“Giacché mi è impossibile parlare con suo fratello, al quale volevo fare un’intervista, permette che io le rivolga ancora altre domande?”.
“E cosa sta facendo? Continui…Mi ascolti: ho capito chi è lei…anzi adesso mi ricordo di lei… ci siamo visti un’altra volta. Non mi frega…scriva pure in quel giornalaccio tutto quello che vuole ma scriva pure che mio fratello è il più bravo sacerdote che c’è, il più preparato e che presto, ne sono sicura, lo faranno vescovo”.
Mentre si svolgeva questa discussione fra me e la “monsignora”, vidi, nel corridoio, una coppia che aspettava che io uscissi per accedere nell’Ufficio.
Appena la signora la scorse a gran voce disse: “Entrate! Questa è la casa di tutti. Il Cuore di Gesù vi benedica”.
Sono entrati timidamente due persone giovani, un uomo e una donna, dall’apparente età di trenta anni.
“Buongiorno Signora, mi chiamo Nicola e la mia ragazza Lilla, conviviamo da sette anni, abbiamo un bambino di tre e vorremmo sposarci in chiesa”.
“Cosa ha detto?… Convivete?…convivete nel peccato…avete fatto un figlio peccando e chiedete che…vergognatevi!”.
“Ma Signora…abbiamo già parlato con suo fratello, proprio il mese scorso. Ci ha detto che era possibile, che dovevamo fare un corso e adesso lei…Ma chi è lei a dirci addirittura che abbiamo avuto un figlio nel peccato?… Non abbiamo nulla di cui dobbiamo vergognarci…”.
“Mio fratello… mio fratello…il monsignore è troppo buono. Più volte gli ho detto di non dare spazio a … Mi dia il numero di telefono. Le telefonerò dopo aver parlato con lui”.
I due, come “cani bastonati” di corsa hanno lasciato l’Ufficio parrocchiale, mentre il giovane uomo mormorava alla sua compagna: “Te l’ho detto più volte…hai la testa di c…. tu non mi ascolti. Vadano tutti i preti a f… in c…Sposiamoci al Comune. Su andiamo al municipio senza perdere tempo”.
Rimasi fortemente “choccato” da quanto avevano visto i miei occhi e sentito le mie orecchie.
Le mie domande erano tante: perché il parroco lascia le briglie sciolte alla sorella? Perché si ecclissa e non si prende le responsabilità pastorali della parrocchia?
Ero fortemente perplesso e ancora non eravamo giunti all’ultimo atto di quell’incontro.
A un certo punto, infatti, alzando anche il tono della voce, rivolgendomi a lei dissi:
“Mi risulta che suo fratello è nella canonica. Lo chiami”.
“No…Non è possibile”.
“Perché”.
“Perché oggi è giovedì”.
“Che significa?”.
“Tutto il giovedì egli lo dedica alla preparazione dell’omelia e non vuole essere disturbato. La mattina per scriverla. Il pomeriggio per impararla a memoria. Il venerdì e il sabato per le prove”.
“Per le prove? Cosa significa?”.
“In questi due giorni egli fa le prove davanti allo specchio, uno specchio grande che ha voluto collocare nella sua camera. Io l’ascolto e se necessario lo correggo. Deve sentirlo la domenica in chiesa! Che figurona!”.
“Che sia difficile fare il prete e particolarmente il parroco non è una novità, ma delegare il proprio ruolo a una sorella, è espressione di stupidità”.
Cosi pensavo, lasciando la parrocchia.
Conoscevo quel prete quando ancora era un adolescente e, a dire il vero, non brillava molto, allora, per la sua intelligenza, tant’è che mi ero meravigliato quando il vescovo, forse ispirato dallo Spirito Santo, l’aveva posto all’apice di un’istituzione, per la quale si dovrebbe essere capace di esprimere intelligenza, umanità e sensibilità formativa.
Sapevo chiaramente che da parecchi anni la carriera sacerdotale è legata soltanto alla discrezionalità dei superiori, aperta agli ipocriti e ai “baciapiedi”, che non mancano mai, ma che fosse aperta agli imbecilli… questo per me era impensabile.
A lungo ho pensato che “di tutti i miracoli di Gesù menzionati nei Vangeli, nemmeno uno si riferisce alla guarigione di uno stupido. Tanto è incurabile la stupidità” (Constantin Stoica)!