di ANDREA FILLORAMO
E’ bene scriverlo a caratteri cubitali: la cultura, che oggi si impone, che avanza e non può arrestarsi, è una cultura secolarizzata, in base alla quale scompaiono i comportamenti sacrali, aumentano le distanze dai simboli, dai miti e dalle tradizioni di matrice religiosa, crolla qualunque tipo di dogma imposto dall’esterno della coscienza umana, che “deve essere un’entità sempre consapevole del proprio oggetto”. Così della coscienza scrive Franz Brentano, filosofo e prete cattolico, libero docente all’università di Würzbur.
Incomprensibile, quindi, diventa il linguaggio dogmatico della Chiesa o di quegli uomini di Chiesa che non riescono a comprendere o non vogliono comprendere che la diversità delle situazioni umane, dei mondi culturali, delle “weltanschauungen”, cioè dei modi in cui singoli individui o gruppi sociali considerano la posizione dell’uomo nel mondo.
Incomprensibile diventa anche, quindi, quella teologia, che spiaggia molto spesso nelle aride secche del vecchio o nuovo Tomismo che non riesce ad abbandonare i vecchi e anacronistici ripetitivi richiami etici sulle cose da fare e su quelle da evitare e non riflette sul fatto che essa dovrebbe costruirsi soltanto sulle parole e sulla testimonianza di Cristo, che non impone o propone obblighi e vincoli dottrinali. Scrive S. Agostino: “ Tenete dunque bene a mente che il Signore Cristo Gesù è la porta ed è il pastore: è la porta in quanto si apre, cioè si rivela, ed è il pastore, in quanto entra attraverso se stesso. (In Io. ev. tr. 47, 3)
Già nel lontano 1973, nel pieno delle battaglie seguite agli eventi del 1968, gli studenti universitari cattolici hanno avuto il coraggio di affermare: “La Chiesa si trova a vivere la sua avventura terrena in una mescolanza e in una confusione di orizzonti irriducibili”
Occorre chiederci: i dogmi, che per la Chiesa Cattolica hanno il compito di assicurare la trasmissione inalterata della fede nel corso del tempo, sono dottrine fisse, definite una volta per sempre, oppure sono degli insegnamenti vivi, realmente aperti allo sviluppo?
Nella storia del cristianesimo forse mai quanto oggi si è discusso di cambiamento. Di rado, però, si riflette su ciò che significa esattamente in senso teologico “sviluppo” – e sviluppo del dogma, in particolare. Ricordiamo che la Chiesa è stata dal principio una comunità dinamica che ha cercato di annunciare il Vangelo, nel mutare dei tempi e delle culture, in modo comprensibile. Altrettanto ricca è la tradizione, spesso dimenticata, di teorie dello sviluppo in campo dogmatico.
Vale la pena, allora, disseppellire questi approcci e dar loro criticamente nuova vita. La Chiesa in passato è stata assai più capace di cambiare di quanto molti non siano disposti oggi a concedere. Perché non dovrebbe essere capace di farlo anche in futuro? Una cosa è certa: la Chiesa se vuole avere un futuro deve legare insieme continuità e discontinuità.
Michael Seewald, teologo contemporaneo, in “dogma in divenire”, che tutti dovremmo leggere, “traccia la storia della teoria sullo sviluppo dei dogmi, illustra sia la mutevolezza delle espressioni dogmatiche sia i diversi sforzi compiuti per comprenderle e afferma che la determinatezza del contenuto del dogma è qualcosa che continua a provocarci e indubbiamente richiede sempre nuove determinazioni, ma in definitiva corrisponde al fatto che il Dio di Gesù Cristo si è voluto determinare facendosi uomo”.