di ANDREA FILLORAMO
Succede continuamente: tutti i corpi degli uomini e degli animali possono vivere anche lungamente ma alla fine si deteriorano, smettono di funzionare e muoiono per vecchiaia.
Questa regola vale non solo per i corpi naturali ma anche per quelli che Hobbes chiama corpi artificiali, che possono essere le società, gli Stati e le Istituzioni.
Anche, quindi, la Chiesa in quanto Istituzione, che, per due millenni ha retto a tutti i malanni, a tutte le intemperie, al succedersi degli avvenimenti, è destinata a morire, per logoramento, per vecchiaia.
Illusoria è, quindi, la speranza di quanti, mal interpretando le parole di Cristo quando ha detto: “sarò con voi fino alla consumazione dei secoli”, hanno applicato o applicano la categoria dell’eternità a tutto quello che, per natura, nella Chiesa, non è destinato a durare per sempre.
Essi non tengono conto o non sanno che non può esserci nell’”Ecclesìa”, cioè nella comunità voluta e fondata da Gesù Cristo che è destinata a durare per sempre, una “philosophia perennis”; una teologia costruita dalla genialità degli uomini che col tempo diventa sempre stantia che cambia, quindi, in conseguenza del cambiamento dei tempi e del linguaggio, persino dei dogmi che non accettano alcuna flessibilità interpretativa.
Non vogliamo qui affermare alcun relativismo teologico, cioè una teoria che sostiene che il pluralismo delle religioni non è solo una realtà di fatto, ma una realtà di diritto, ma si vuol dire tutt’altra cosa.
A nessuno, quindi, può sfuggire la lunga agonia della Chiesa negli ultimi anni alla quale stiamo assistendo: le chiese si svuotano; il numero dei preti diminuisce sempre di più; molti preti, anche dopo pochi anni dalla loro ordinazione, lasciano il ministero e non solo per la legge del celibato; l’età media dei preti si alza sempre di più, i seminari chiudono; molte parrocchie sono senza parroco.
Una certa Chiesa, quindi, quella che noi conoscevamo da quando eravamo bambini, sta morendo, sta, quindi, finendo e non si ha il coraggio di operare dei cambiamenti che potrebbero restituirle la vitalità che tutti auspichiamo. Persino Papa Francesco, per le opposizioni all’interno della Chiesa che hanno costruito attorno ad essa dei muri invalicabili, riesce ad abbattere le resistenze alle necessarie innovazioni.
Alla sua morte assistono i preti, non più di tanto preoccupati, che cercano soltanto in tutti i modi di non essere trascinati nel disastro di tale morte.
Per far ciò essi si arroccano fortemente: nel ritualismo, nel devozionismo, nelle benedizioni, negli esorcismi, nelle presunte o false apparizioni di Maria, nella religiosità popolare che spesso confina con l’idolatria e ancora: nelle superstizioni, nella ripetizione stanca delle loro omelie in cui si sente soltanto la loro voce e mai quella di Dio. Non mancano quelli che, per fragilità, per lo sgomento di non avere più una chiara funzione da svolgere o temendo di perdere la remunerazione nascondono ciò a cui credono o non credono.
Si afferma, inoltre, oggi più che mai la figura del prete che come ha affermato Pio XII nella sua “Esortazione al clero” degli anni ’50, fa “presumere che si possa salvare il mondo attraverso quella che è stata giustamente chiamata l’eresia dell’azione”.
Ma i vescovi, dinnanzi a questa triste situazione che a loro non può sfuggire, in cui si trova la Chiesa, cosa fanno? Colpisce chiunque la dichiarazione fatta dal Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, secondo il quale risulta che un sacerdote su tre (il 30 per cento, ha detto il cardinale) rifiuta la nomina a vescovo, cifra triplicata in dieci anni.
Non è estranea a questo, chiamiamolo pure fenomeno, la dimissione, in sé misteriosa di Papa Benedetto XVI ma che la dice lunga come non sia facile non solo la funzione di pontefice ma anche quella di un vescovo.
La verità è che il vescovo, ogni vescovo, oggi fatica a fare il vescovo e tale fatica è tanto grande da letteralmente spaventare uno su tre di coloro che il Papa aveva scelto per succedere agli apostoli.
Non deriva tanto dall’esterno, ossia dalla società scristianizzata per la quale quella di vescovo è una carica dalla poca importanza, ma dall’interno: è la Chiesa stessa a rendere faticoso fare il vescovo.
Cosa resta, quindi, da fare? E’ necessario, a mio modesto parere, che vescovi, preti e laici assieme si impegnino a non cadere nel pessimismo, che essi superino ogni divisione. È tutta qui è racchiusa la rivoluzione liberatrice del Vangelo per e far rinascere la Chiesa e per non farla morire