di ANDREA FILLORAMO
Nessuna religione ha, a suo fondamento, la dottrina dell’odio e non potrebbe praticare la politica della morte e della distruzione. Se si aggiunge, poi, la concezione in esse presente che tutti gli uomini sono fra loro fratelli dovrebbe essere inevitabile costruire un’impostazione della comunità umana sul fondamento della pace e non su quello della guerra.
Sembra che questa sia un’affermazione di principio, che rischia di rimanere tale, se non teniamo conto che tutte le religioni monoteiste e non solo, presentano ed hanno dei caratteri comuni, che specialmente in quelle a più lunga longevità, vengono accentuati. Tali caratteri, in molta sintesi, sono: Dio ha creato il mondo e l’uomo, ma l’uomo è incline al male; Dio ha fatto un patto con l’umanità, che contiene dei precetti assoluti che escludono la guerra e suggeriscono come raggiungere la pace.
Nell’Ebraismo, nel Cristianesimo e nell’Islamismo, la pace per il genere umano è un dono di Dio che accompagna la venuta del suo Regno. Per queste tre religioni, la prospettiva di libertà e di fede è contenuta nei Profeti, ai quali esse danno una grande importanza perché testimoniano, oltretutto, il potere dei credenti di operare per la realizzazione di un ordinamento del mondo senza guerra: Vedi: Isaia 2,4, Michea 4,1; Zaccaria 9.9; Osea 2,2.
Nella concezione cristiana è estremamente chiara l’assolutezza (o piuttosto la necessaria progressiva assolutizzazione) del “non uccidere”, come precetto fondamentale del vivere sociale ma, ancor più in profondità, come fondamento stesso della moralità. Contemporaneamente, però, troviamo l’appello alla responsabilità e all’obbligo di proteggere la vita che è minacciata, in un contesto storico-culturale in cui le soluzioni non violente non sono ancora sempre efficaci o concretamente realizzate.
Da rammentare, però, che nella vita di ogni uomo o donna ci sono azioni buone e azioni cattive, perché, è ammessa la sua libertà di scelta e, quindi, grande è spesso la difficoltà nel distinguerle e nel definire il perimetro del male nell’esistenza.
Per la realizzazione di questo risultato storico della pace, gli uomini, quindi, sono tutti invitati a porre in essere tutti gli sforzi spirituali e materiali per far in modo che Dio realizzi questa sua promessa, indipendentemente dalla fede nella venuta del Messia che caratterizza l’Ebraismo, oppure la realizzazione del Regno.
Purtroppo, però, ciò non avviene nè può avvenire quando la religione e le sue istituzioni sono asservite alla Ragion di Stato o quando una religione addirittura si identifica con uno Stato.
In tal caso essa, pur conservando principi, idee, comandamenti, dottrine tradisce la sua vocazione di affermare la pace fra gli uomini.
Ciò è sempre accaduto nell’Occidente, cosiddetto cristiano, ed è avvenuto più volte a partire da Costantino (306-337), quando tutto l’impero è diventato cristiano: da quel punto la Chiesa ha pensato più alla sicurezza dello Stato e, quindi, ha sposato la causa della pace imperiale fatta e difesa con le armi.
Gli unici che sono stati dispensati dalle armi sono stati il clero e i religiosi; qui forse troviamo l’origine del fossato di separazione tra clero e laicato e l’affermazione rapida del clericalismo, che in un’accezione ampia, indica un agire in senso politico che mira alla salvaguardia e al raggiungimento degli interessi del clero e si concretizza nel tentativo di indebolire la laicità dello Stato.
Il legame stretto che nasce tra Chiesa ed impero, quindi, ha imposto un nuovo modo di guardare alla guerra.
La carica profetica delle beatitudini evangeliche è stata sacrificata al realismo politico attraverso l’elaborazione della teoria della guerra giusta, una teoria che è sempre servita a giustificare le guerre e mai a condannarle, a ritenere legittimo l’impiego di immense risorse economiche per la costruzione, la commercializzazione e la distribuzione di armi sempre più sofisticate che seminano la morte in molte parti del pianeta.
Ciò è avvenuto anche per la Chiesa Cattolica che, nei secoli, addirittura ripetutamente ha promosso, fomentato e fatto la guerra.
Ciò avviene attualmente nella Chiesa ortodossa russa dove il Patriarca Kirill giustifica l’invasione e la guerra in Ucraina negli stessi termini del governo russo, esorta i soldati russi a una guerra giusta contro le «forze del male», dona un’icona alle Guardie di sicurezza nazionale per la loro missione e presenta la guerra come quella in cui la Russia è la vittima e non l’aggressore.
Nell’ambito della Chiesa cattolica molte cose sono cambiate, soprattutto a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963), che ha rifiutato ogni tipo di guerra in quanto «contraria alla ragione».
Successivamente nella Gaudium et spes, all’interno del superamento della dottrina della guerra giusta, si è ricuperato il principio della legittima difesa anche a livello collettivo come strumento per far fronte a situazioni critiche, nella piena salvaguardia del criterio di proporzionalità.
Da qui si è aperta la strada ad interventi di ingerenza umanitaria o di polizia internazionale.
Giovanni Paolo II ha ribadito più volte con grande fermezza il no alla guerra, pur riconoscendo l’esigenza di intervenire per evitare il dilagare di mali maggiori, come la tortura di massa, l’eliminazione di interi gruppi etnici, le violenze efferate contro donne e bambini.
In certe situazioni è obbligo fare ricorso alla forza come male minore, sviluppando «azioni circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello sopranazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi».
Non si tratta di reintrodurre la dottrina della guerra giusta, infatti il fine perseguito è quello di arrestare un processo di grave violenza, con un’azione circoscritta destinata solo a disarmare l’aggressore.
La legittimità di tali forme di intervento è legata al verificarsi di alcune condizioni, quali l’imparzialità, la volontà di promuovere una vera de-escalation della violenza e della guerra e la prudenza nell’uso delle armi.
Del tema della guerra si occupa anche l’ultima enciclica sociale, Fratelli tutti, di Papa Francesco, in particolare ai paragrafi dal 256 al 262 del settimo capitolo dedicato ai percorsi di pace per un nuovo incontro.
Nel testo il Papa la associa alla pena di morte come esempio di false risposte che non risolvono i problemi che pretendono di superare e non fanno che aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto sociale.
Si tratta di affermazioni che dichiarano l’inammissibilità della teoria della guerra giusta.
Sono paragrafi che riprendono l’insegnamento che si è sviluppato soprattutto nel post-Concilio.
La grande novità dell’insegnamento di Papa Francesco su questi temi è quella contenuta in un discorso pronunciato nel suo viaggio in Giappone quando disse, nei luoghi dove furono sganciate le bombe atomiche nel 1945, che anche il solo possesso di armi nucleari a scopo deterrente è già immorale. Ecco perché al numero 258 il Papa arriva ad affermare che oggi «è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile guerra giusta».
Quindi non è tanto la dottrina che è cambiata, ma la dottrina stessa che ha dichiarato la propria fine proprio in virtù di quei criteri che le servivano per giustificare la regolamentazione della violenza.
Pensando a tali dimensioni distruttive, più o meno presenti in ogni guerra, ma soprattutto nei conflitti armati dei nostri giorni, già il titolo del paragrafo che Fratelli tutti dedica al tema della guerra (nn. 256-262) rappresenta un messaggio forte e pone quest’ultima sotto il segno di un sostantivo inquietante: l’ingiustizia!