di ANDREA FILLORAMO
Siamo tutti, giovani e vecchi, stanchi di essere reclusi nei nostri spazi abitativi. Ciò avviene per evitare i contagi del Covid-19, che ha posto sottochiave la nostra vita quotidiana.
Saremo costretti a convivere, perciò, con conseguenti probabili patologie di natura psicologica o addirittura psichiatrica, che si manifesteranno non appena riconquisteremo a fatica la libertà.
Di colpo siamo stati obbligati a riscoprire la nostra estrema fragilità esistenziale e a scegliere la sopravvivenza a scapito di ogni altro valore; come se nel periodo precedente alla pandemia non ci fosse stata sufficiente coscienza del legame tra l’essere vivi e il quotidiano rischio di non esserlo più, a causa della propria costitutiva vulnerabilità e mortalità.
L’abbiamo sempre pensato: vivere è un bene, morire è un male, implicito nelle leggi stesse della vita, a cui l’uomo è obbligato a porre rimedio con tutti gli strumenti medici e tecnologici a disposizione.
Abbiamo sempre anche pensato, però, che la morte è l’evento o il processo del tutto indipendente dalle attività dell’uomo ed è la più radicale delle ingiustizie che possa capitare e che sicuramente capiterà a un essere umano.
Il Covid-19 ha provocato più di un milione di morti, almeno quelli registrati, la maggior pare dei quali non nei paesi in via di sviluppo ma in quelli sviluppati. Un dato che va contro una tendenza a lungo consolidata.
Dalla Seconda guerra mondiale in poi, infatti, i paesi ricchi hanno avuto pochi episodi di mortalità prematura di massa.
Nelle loro culture la tendenza è stata quella di rimuovere la mortalità dalla vista e relegarla agli ospedali, escludendola persino dal novero dei possibili argomenti di una semplice conversazione.
Adesso la pandemia sta inducendo le persone che vivono nel mondo ricco ad adottare approcci aperti e pragmatici alla morte, una cosa meno insolita nei paesi in via di sviluppo dove, a causa di povertà, sanità scadente, strade pericolose e conflitti armati le persone sono più a stretto contatto con la morte.
Anche nel sentire comune e nella stessa prassi religiosa dei paesi cattolici, per lungo tempo, si è riscontrata una tendenza all’oblio delle tematiche legate alle cose ultime (morte/giudizio, inferno/paradiso), i cosiddetti “novissimi”, sui quali anche i preti, nelle loro omelie, hanno preferito tacere.
Una preghiera un tempo molto diffusa, diceva: “A repentina et improvisa morte libera nos Domine”. Tale orazione mostra la mentalità circa la maniera di considerare la morte, anche da parte dei credenti.
La morte improvvisa era considerata la peggiore sciagura possibile: era come dover sostenere un esame senza essersi minimamente preparati.
Oggi “La morte improvvisa e repentina” è piuttosto considerata un fatto fortunato, che risparmia dalla sofferenza o dall’angoscia di pensare ad essa, non come un evento importante a cui ci si deve preparare, mediante quei riti e gesti ben noti alla tradizione che avevano reso la morte “addomesticata”, per citare l’espressione di Philippe Ariès (1914 –1984),storico francese, importante medievalista e storico della famiglia e dei costumi sociali..
Per Ariès colui che sta per morire, infatti, ha bisogno di un tempo adeguato per separarsi dai propri cari, lasciando a ciascuno un messaggio, chiedendo e offrendo il perdono per le eventuali colpe commesse.
È significativo che gran parte del Vangelo sia dedicata all’evento morte, sia nelle parabole legate al giudizio sia nella descrizione ampia e dettagliata della morte di Gesù, un evento che viene narrato accuratamente. Fra le parabole rammentiamo quella del ricco epulone (Lc 16,19-31), molto citata da artisti e teologi per i suoi chiari riferimenti alla vita dopo la morte.
La morte, perciò, è oggi cacciata dall’immaginario delle attività quotidiane, anche da parte dei cristiani, che dovrebbero vedere quest’atto finale della vita come “dies natalis”. La morte diviene con il Covid-19, sì, presente ma terribilmente invasiva e il nostro pensiero è obbligato a girare attorno al tema del fine vita, affrontandolo per lo più in termini di un fastidio da disbrigare e nella forma più indolore possibile.
Si spera che la nostra civiltà diventi, in questa contingenza pandemica, meno analfabeta su questo e su altri temi legati alla qualità della vita, anche se impregnata di morte.
La pandemia, quindi, può divenire un ammonimento cristiano, anche se tragico, un “ricordati, o uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai”.