di ANDREA FILLORAMO
Da quando il Covid-19, cioè una molecola, un microorganismo incapace di vivere se non come parassita, un nemico invisibile, imprevedibile, sfuggente e insidioso, si è abbattuto sulle nostre vite, è stata imposta una brusca frenata alle nostre abitudini, sono state fatte crollare molte delle nostre certezze e abbiamo riscoperto quanto sia ben facile morire.
Lo sappiamo e forse è inutile ripeterlo, l’uomo, fin dalle sue origini, ha cercato sempre di allontanare da sé l’idea della morte, ma il Covid-19, in questo ultimo anno, l’ha fatto diventare un fantasma pauroso che ci accompagna sempre di giorno e di notte, che suscita sentimenti di repulsione, di raccapriccio, tingendosi di tinte che raramente abbiamo visto.
Per paura di morire a causa del Covid e del contagio che causa la morte, perciò, rischiamo di non programmare più, di non prevedere, di non coltivare i nostri sogni, le nostre aspettative e, quello che è più tragico, di rifiutare totalmente e a priori tutto ciò che rappresenta impegno, di non avere obiettivi, desideri o progetti che richiedono sforzo, impegno, volontà, fatica.
Mai, prima d’ora – diciamolo pure – all’interno di una società che ha cercato sempre e in ogni modo di dimenticare e far dimenticare che esiste la morte, essa è stata così vicina all’uomo nella vita di tutti i giorni.
Sapere di dover morire incute, come sempre è avvenuto, timore, anche se nulla è più naturale della morte e forse è proprio da questo timore che è nato il “tabù” innominabile della “fine della vita” e di tutto ciò che l’accompagna, inclusa l’incapacità di fronteggiare materialmente ed emotivamente la condizione di malattia, che la precede.
Eppure “cotidie morimur”, cioè “ogni giorno moriamo”: in questi ultimi mesi sono morte tantissime persone, molte delle quali in completa solitudine, con a fianco un infermiere ma senza poter dare un ultimo saluto a una moglie, a un marito, a un compagno, a un figlio, a un amico. Questa è la tragedia nella tragedia, che ha visto 100.000 persone solo in Italia, che hanno dovuto affrontare la propria morte senza la presenza delle persone care, dei sacramenti e, molti di loro, non hanno avuto neppure un funerale che potesse essere di conforto ai parenti.
Vivendo in Lombardia, la regione, ancor oggi, più colpita dalla pandemia, ne ho conosciute alcune di queste, la cui morte, la solitudine e le sofferenze che l’hanno precedute, mi hanno fortemente segnato.
A questo punto, la domanda è d’obbligo: “è utile pensare alla morte?”.
Una risposta a questa domanda viene data dalla filosofia e, in quanto cristiani, dalla parola di Gesù contenuta nei Vangeli e dalla sua testimonianza.
Epicuro, infatti, afferma, in modo ateo, quindi lontano da una visione cristiana, con l’intento di esorcizzare la sua stessa idea e il pensare alla morte ritenuto un inutile pensiero, che “quando siamo noi, non c’è la morte e quando c’è la morte, non siamo più noi. Nulla dunque essa è per i vivi e per i morti, perché in quelli non c’è, e questi non sono più”.
Blaise Pascal, invece, sottolinea che, “benché sia più facile accettare la morte senza pensarci che pensare alla morte, la grandezza dell’uomo consiste proprio nel poter pensare ed essere cosciente di ciò che vive. L’uomo è solo un debole giunco della natura; ma è un giunco pensante. Anche se l’universo lo distrugge, l’uomo è assai più nobile di ciò che lo uccide perché sa di dover morire; l’universo non è affatto consapevole del vantaggio che ha su di lui. Quindi tutta la nostra dignità consiste nel pensiero”.
Se dunque è importante acquisire consapevolezza di cosa è vivere, ancor più è importante, per Pascal, acquisire una consapevolezza profonda di cosa significa morire.
Il filosofo Martin Heidegger insegna che questa “adeguatezza” la si realizza prima di tutto smettendo di parlare della morte in maniera impersonale, come un qualcosa che riguarda qualcun altro. “Si muore”; ma mai: “io muoio”. E dunque la morte diventa una sorta di non realtà per nessuno. Ma se è inevitabile morire, è essenziale morire bene. Il contesto morale in cui si muore è importante.
I cristiani hanno paura anche loro della morte, che però, in quanto seguaci di Cristo, devono far proprio l’esempio del Salvatore, che senza nascondimenti né vergogna, affrontando la morte, nell’orto degli olivi, diceva ai suoi: “Ora l’anima mia è turbata” (Gv 12,26). Il Vangelo di Marco (Mc 14,33-34), poi, aggiunge che Gesù allora “cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia”, fino a confessare, con tristezza: “Ora l’anima mia è triste fino alla morte”. Furono allora tali il suo spavento, l’angoscia e la tristezza, che “sudò sangue”.
Infine, il suo grido sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) che continua oggi a rivivere nel morire di tante persone e nelle parole di molti disperati.
Non dimentichiamo, però, la parabola più bella e più vera di Gesù sul significato della morte è quella del chicco di grano che, cadendo nella buia invisibilità della terra, proprio nella sua morte si apre al sussulto di nuovo germoglio. Un transito che inaugura una risposta di luce e che fa arretrare la paura.
Purtroppo in troppi ci hanno detto – spero non ci dicano più – che “volontà di Dio” è quella che passa da storie e da immagini di sofferenza e di morte. Ma questa sarebbe una verità senza cuore, oltre che senza fondamento.
Confortante è invece risentire quel che Gesù dice, senza ambiguità, nel Vangelo secondo Giovanni: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).
Dall’incertezza diffusa del Covid-19 può nascere, quindi, una nuova consapevolezza di sé e un sano ritorno all’essenzialità, a condizione che non si trasformi in angoscia per il futuro.