di ANDREA FILLORAMO
Ricevo da un vecchio amico, che non vuole essere menzionato, una e-mail nella quale, fra l’atro, egli mi chiede: “Perché, Dio e la Madonna non intervengono per liberarci dalla pandemia?” A questa domanda avevo già risposto, in un articolo su questo giornale, che forse gli è sfuggito. In esso non nego assolutamente che Dio, per l’intercessione di Maria, possa, se lo vuole, liberarci dalla pandemia. Ben venga, quindi, l’iniziativa di Papa Francesco, che ha individuato trenta Santuari che in ogni angolo del mondo, guidano la preghiera mariana ogni giorno del mese di maggio con la quale i fedeli, con la recita del rosario, invocano la fine della pandemia e la ripresa delle attività sociali e lavorative.
In quell’articolo avevo trattato il problema del “miracolismo”, fenomeno molto diffuso, caratterizzato dal bisogno di aspettarsi continui interventi divini sulla realtà senza pensare che così facendo si sminuisce la fiducia nell’intelligenza umana, che è un dono di Dio e non si dà lo spazio dovuto alla scienza, con la quale si possono risolvere le patologie umane, dando significato a quel detto popolare: “Aiutati che Dio ti aiuta”.
Non intendo trattare i problemi sollevati dalla mittente da un punto di vista teologico, dato che sull’argomento avevo già cercato di rispondere in un precedente articolo. Rispondo, come so e posso, seguendo la via meno impervia, utilizzando e servendomi, cioè, con una certa autonomia di pensiero e di opinione di alcune nozioni di antropologia e scusandomi se mi faccio prendere troppo la mano dalla “vis polemica”, della quale, del resto, non posso fare a meno.
Inizio, quindi ad affermare che molti sono i cattolici smaniosi di miracoli, assidui nella venerazione di Madonne che, a loro dire, versano lacrime e sangue. Madonne che mandano messaggi, fanno profezie, rivelano segreti, danno annunci di eventi apocalittici, fanno promesse di segni nel cielo, guariscono da malattie gravi ed incurabili.
Sono questi i cultori di una religione sentimentale che si sottrae ad ogni tentativo di conoscenza razionale ed è molto lontana dalla fede; essa trova terreno fertile nella figura di riferimento che è la mamma di Gesù, la madre per antonomasia, che, anche nei Vangeli, però, è avvolta dal mistero e dalla contraddizione, in quanto la vita che ha generato non è di sua proprietà: è responsabile di questa vita che non è un suo possesso.
Questi cattolici costituiscono una schiera di “devoti” forse di “devotissimi” molto più numerosa di quanto si possa pensare, tanto da far ipotizzare che siano la maggioranza all’interno di qualunque comunità diocesana o parrocchiale e, quindi, della Chiesa, almeno di quella italiana.
A tale schiera appartengono persone, di tutti i ceti sociali, donne e uomini, colti e incolti, che fanno consistere la loro fede in sentimenti che mai l’abbandonano, ma non tutti praticano con lo stesso zelo le “opere di misericordia corporale e spirituale”, né osservano sempre le regole più semplici della convivenza umana e i “precetti” della Chiesa.
Essi, quindi, vivono le esperienze religiose e, particolarmente quelle di devozione a Maria, con molta intensità emotiva, tant’è che, fra loro, c’è chi si commuove addirittura fino al pianto quando parla dell’ultimo presunto miracolo o grazia ottenuta per intercessione della Madonna, come risposta alle sue preghiere e alle “Ave Maria” dei suoi rosari, e lo racconta con dovizie di particolari.
Così è avvenuto, come io stesso ho potuto personalmente osservare, in una trasmissione televisiva, quando la conduttrice, pronta a fare uno scoop su un presunto miracolo di guarigione a Medjugorje, intervistava su quel fatto e su altri, Paolo Brosio, mediocre giornalista, che oggi si professa convertito da una vita scioperata per intervento di Maria e che è autore di molti “libercoli” sulla mai dimostrata apparizione della Madonna a Medjugorje.
Da osservare che tali pubblicazioni vengono ottimamente pubblicizzate e commercializzate dalla continua sua inspiegabile comparsa nelle televisioni pubbliche e private.
Le televisioni, infatti, mai fanno mancare, ad alimento informativo degli adepti del miracolismo le loro fissazioni ossessive, cioè i pensieri, le idee o le immagini particolarmente ricorrenti e intrusive che, per la continua e spasmodica, tormentosa e convulsa attesa di prodigi che non si avverano mai, non giungono a quella serenità e quella quietezza dello spirito che un atto religioso dovrebbe dare.
Spesso questi sentimenti irrazionali e le pratiche religiose che seguono, oltretutto vengono promosse dai preti all’interno delle proprie parrocchie, dove sorgono gruppi che sostituiscono i vecchi gruppi organizzati di azione cattolica ma a differenza di quelli si pongono scopi e fini prettamente devozionali.
Quei preti forse sono convinti che tutte le espressioni del sentimento religioso e devozionale devono trovare necessariamente ampio spazio nella Chiesa: è questo, a mio parere, un travisamento della fede, di cui vescovi e preti mai si sono presi la piena responsabilità e mai hanno organizzato una pastorale ad hoc, né tanto meno hanno elaborato una catechesi che limitasse la fuoriuscita dal cattolicesimo di molti giovani che ritengono inattuale ogni tipo di formalismo e assurda e sorpassata una cultura “superstiziosa-devozionale” di cui ritengono che si alimenti la religiosità di tanta gente che si dichiara ed è orgogliosa di sentirsi cattolica.
Provvidenzialmente, però, l’accettazione da parte dei preti e, quindi della Chiesa, del sentimentalismo, che è la matrice delle superstizioni e del devozionismo, sembra che sia giunta al capolinea.
Ciò è già accaduto con l’improvvisa irruzione nella nostra quotidianità, con il suo carico di sofferenza, di angoscia, di panico e di morte, del coronavirus, che ha richiamato alla realtà tutti e ha fatto capire con estrema chiarezza, che Dio, la Madonna o i Santi sono e devono rimanere totalmente estranei a questo virus, che è necessario stare, quindi, con i piedi ben piantati a terra e che è urgente uscire dal mondo magico, superstizioso, miracolistico in cui tanti si sono rifugiati.
Segno di questo auspicato e speriamo reale cambiamento, è stata la cerimonia officiata da Papa Francesco, solo e impotente sul sagrato di San Pietro nell’ultima Pasqua: è stata questa un’immagine che rimarrà per sempre indelebile nella nostra mente, che obbliga a vedere il virus che ancora ci aggredisce, da combattere e sconfiggere senza alcun rito propiziatorio, ma con il sostegno della preghiera svolta, però, nel silenzio, lontano dalla folla e particolarmente con gli strumenti che la sola scienza e non la fede ci offrono.
A nessun prete, parroco o vescovo, pertanto, tranne a qualcuno che come succede frequentemente, ha voluto “cantare fuori dal coro”, durante il lungo periodo di dolorosa e difficile recente segregazione domestica, vissuto da tutti con grande sofferenza e partecipazione, è venuto in mente di riproporre quello che è accaduto a Milano l’11 giugno 1629, (“altri tempi!” è giusto dirlo), durante la peste che fece moltissime vittime, quando il cardinale Federico Borromeo, ideò e guidò una solenne processione per chiedere la grazia della fine di quell’epidemia, non in quel caso a Maria ma a San Carlo Borromeo, cugino dello stesso cardinale.
Alla processione, partecipò quasi tutto il popolo milanese, ma il contagio, favorito dall’ammassamento della gente, scatenò in forma ancora molto più grave la peste e i malati e i morti aumentarono in misura impressionante.
Non è venuto in mente neppure all’arcivescovo di Messina, Lipari e Santa Lucia del Mela, Monsignor Giovanni Accolla, che, sicuramente non appartiene e non presiede quella “ciurma clericale” che appoggia o promuove il devozionismo, esistente anche nella Città dello Stretto.
Da quel che so da alcune testimonianze, confermate da un video che ho potuto vedere nella Rete, egli, assieme al suo Ausiliare Mons. Cesare Di Pietro e alle autorità civili, nel momento più buio dell’epidemia, là di fronte al Palazzo del governo, guardando la Madonnina del Porto, si limitò a mettere sotto la protezione della Madonna della lettera la città e i suoi abitanti, dopo essersi impegnato e dopo aver impegnato ad aiutare e soccorrere quanti erano stati maggiormente colpiti dalla pandemia.
Monsignor Accolla, perciò, ha condiviso e condivide l’esortazione di Papa Francesco quando dice “diamo spazio alla fantasia della carità per individuare nuove modalità operative”.
Non si può, quindi, evocare la fede come strumento emotivo per contrastare la malattia, la pandemia, la morte, quella fede che in molti casi in passato ha consentito di accettare la stessa fine della vita come manifestazione dell’imperscrutabile volontà di Dio, che non è, né può essere quel Dio “tremendo”, “vendicativo”, “da tener buono con le preghiere e i sacrifici”, che interviene per operare prodigi e miracoli, superando le leggi di natura. Tale nozione appartiene al Primo Testamento, che in Dt 5,9 presenta Dio come: “un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e quarta generazione”.
Questo sicuramente non è il Dio di Gesù Cristo, che ci ha insegnato a chiamarlo “Padre nostro”, non è il Dio, il cui figlio è stato generato, per i credenti, da un’oscura fanciulla di Nazareth.
Credo che la Chiesa possa e debba approfittare di questo momento di paura, di sofferenza, di pandemia, facendolo diventare un momento provvidenziale.
Sono certo che essa possa, quindi, liberarsi ed aiutare a liberare la gente dalla zavorra sentimentale, dalle incrostazioni secolari, fantasiose, leggendarie, mitiche, favolistiche, da una certa esegesi, che appare in molte omelie domenicali che sono ripetitive, stancanti, tediose che denotano non solo impreparazione ma utilizzo di un linguaggio che diventa incomprensibile ai giovani, e possa fare riferimento alla parola sempre viva ed attuale del Vangelo, che, come dice ancora Papa Francesco “non è una favola, non è un mito, un racconto edificante, no. Il Vangelo di Cristo è la piena rivelazione del disegno di Dio, del disegno di Dio sull’uomo e sul mondo. È un messaggio nello stesso tempo semplice e grandioso”