Il Vangelo secondo Andrea Filloramo: ritirarsi nel deserto in meditazione silenziosa

di ANDREA FILLORAMO

Jared Leto è un attore, musicista e regista statunitense. Egli ha annunciato ai suoi fans che da qualche tempo, dopo i suoi molti trionfi nella musica e nel campo della cinematografia, ha sentito il bisogno – come egli dice – di “ritrovare se stesso” e, quindi di “ritirarsi nel deserto in meditazione silenziosa”

Conseguentemente egli non è venuto subito a conoscenza di quello che stava succedendo nel mondo, ovvero la pandemia. Avuta la notizia, ha pubblicato un post su Instagram dove ha scritto:”Dò comunicazione della mia meditazione silenziosa nel deserto. Sono completamente isolato, niente telefono, nessun tipo di contatto con gli altri. Non avevo idea di cosa succedesse fuori del posto in cui sono.  Sono venuto a conoscenza di un mondo completamente diverso, un mondo cambiato per sempre. Una cosa sconvolgente a dir poco. ( …… ). State a casa! State al sicuro!“.

Ovviamente l’invito di Leto, personaggio, di cui, forse, molti non hanno mai sentito parlare, è stato rivolto ai suoi fans, ma ritengo che possa essere rivolto a quanti “mordono il freno”, a causa della “prigionia domestica” coatta, alla quale il virus ci costringe.

Certamente l’episodio “Leto” è un fatto marginale nella stessa cronaca, che sicuramente è sfuggito a molti, però, può diventare, a mio parere, uno spunto di riflessione, partendo soltanto da quella frase del suo post che contiene un’esperienza molto interessante di quella che egli chiama: la “meditazione silenziosa nel deserto”, alla quale tutti, in questo momento, siamo chiamati.

L’immagine del deserto, è una metafora molto cara alla letteratura di tutti i tempi ed oggi diventa anche un’immagine del nostro stato dovuto alla pandemia, che noi, a differenza di Leto abbiamo conosciuto e contro la quale lottiamo con tutte le nostre forze e, quindi, diventa anche un momento esistenziale di riflessione, un momento meditativo, in cui facciamo i conti con l’essenzialità del vivere: siamo costretti, cioè, ad abbandonare le cose che sembravano indispensabili ma non lo sono affatto e che anzi, in questo passaggio, diventano addirittura ingombranti. “E’ questo un momento – scrive Daniel Pennac, (1944) scrittore francese – non occupato né dal lavoro, né dal mangiare, né dalla digestione, un momento perfettamente libero, una spiaggia deserta in cui si potrebbe starsene tranquilli a misurare l’ampiezza del disastro”.

La simbologia del deserto che solitamente indica isolamento, aridità, il “nulla”, il “vuoto”, può e deve essere considerato, quindi, luogo di rinascita e soprattutto luogo dello spirito.

L’esperienza del deserto è fondamentale anche nel cammino di fede, che per i cristiani è lo strumento con il quale si affrontano tutti i problemi che si hanno nella vita. Nel deserto Giovanni Battista, infatti, è cresciuto e ha fortificato lo spirito prima di presentarsi a Israele, è diventato un profeta (Lc 7, 26 par.), messaggero che precede il Signore (Lc 1, 76; Mt 11, 10 ), ha inaugurato il vangelo (Atti 1, 22; MC 1, 1-4 ). Ancora sempre nel deserto, Gesù si ritirava per la preghiera lottando contro le tentazioni di Satana (Mc 1,35).

Nel ciclo di vita desertico secondo alcune tradizioni cristiane l’uomo entrerebbe ed uscirebbe da due porte, agli antipodi l’una rispetto all’altra: la porta dell’uomo e la porta di Dio. Mentre la porta dell’uomo è larga e spaziosa, quella di Dio è molto stretta, stando alle parole di Gesù quando dice: Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa. Quanto stretta è invece la porta e angusta la via che conduce alla vita! E pochi sono coloro che la trovano!” (Mt 7,13-14).

Il deserto che si sia o meno credenti, simboleggia una dura prova, una morte rispetto a tutti i condizionamenti fisici e sociali. Nel deserto, infatti, l’uomo capisce di non poter bastare a se stesso, di non essere al centro dell’universo e accede così alla verità su se stesso, accorgendosi dei propri limiti.

Lo sappiamo: il concetto di limite assume quasi sempre un’interpretazione per lo più negativa perché viene associato a qualcosa che si deve superare, che si deve eliminare, qualcosa che manca.

Il termine limite, tuttavia, ci può aiutare a capire chi siamo, perché è anche un qualcosa che ci caratterizza, una linea di confine che ci aiuta a definire la nostra identità differenziando ciò che siamo da ciò che non siamo.

Sono sicuro: il deserto dentro e fuori di noi, dovuto alla pandemia, cambierà noi e il mondo, perché così è stato sempre con tutte le pandemie della storia. Catastrofi che in alcuni casi hanno decimato interi popoli, sono state anche motori di cambiamento nella composizione stessa della società, che hanno obbligato a rivedere, ripensare e riorganizzarne la vita individuale e quella sociale.

Ho letto in questi giorni “Cosa sarà”, il libro di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma, in cui, fra l’altro, si invita a vedere la pandemia del 2020 non come un “cigno nero”, ma come la possibilità, che non va sprecata, di un cambiamento che può e deve venire anche dal basso, dalla consapevolezza che siamo tutti sulla stessa barca e che nessuno può salvarsi da solo.