di Davide Romano
“Io credo in Dio, che è per me lo Spirito, l’Amore, il Principio di tutte le cose. Io credo che egli è in me come io sono in lui. Io credo che la volontà di Dio non sia mai stata espressa più chiaramente che nella dottrina di Cristo; ma non si può considerare Cristo come Dio e rivolgergli delle preghiere senza commettere il più grande dei sacrilegi…
Io credo che la vera felicità dell’uomo consista nel compimento della volontà di Dio”. Scriveva così Lev Tolstoj, nell’aprile del 1901, in un’epistola in cui chiariva la propria concezione della dottrina cristiana e la natura della propria fede, alla luce delle idee maturate nella sua lunga indagine teologica sui dogmi e le prescrizioni della Chiesa. Appena un paio di mesi prima, durante il Sinodo tenutosi nel febbraio 1901, la Chiesa Ortodossa Russa aveva emesso nei suoi confronti solenne sentenza di scomunica. Il suo trentennale, appassionato studio delle Sacre Scritture – alla ricerca di un punto di vista univoco e autentico nella comprensione della parola evangelica – lo aveva condotto verso una posizione di critica perentoria nei confronti delle gerarchie religiose e delle pratiche liturgiche, e si concludeva con una altrettanto perentoria e irrevocabile sentenza di rottura da parte delle istituzioni ecclesiastiche.
Il tracciato umano, prima ancora che intellettuale, del glorioso scrittore russo è segnato, a un dato momento della sua vita, da un periodo di profondo smarrimento. Negli anni Settanta del suo secolo, intorno ai 45 anni, una lacerante crisi interiore lo coinvolse e sconvolse, come scintilla fece brillare una carica esplosiva che spazzò via il muro di nichilismo e di pessimismo – che l’appassionata lettura dell’opera di Schopenhauer aveva alimentato – che derivava dal frustrante tentativo di giungere a Dio attraverso la ragione, la filosofia, la teologia: “L’uomo impiega la sua ragione per chiedersi: a che scopo, perché?
A proposito della sua propria vita e di quella dell’universo. E la ragione stessa gli dice che non c’è risposta. (…) Che significa tutto ciò? Significa che la ragione non è stata fornita all’uomo per rispondere a questa domanda”. Nasceva adesso in lui la consapevolezza che ogni uomo, l’umanità intera, potesse vivere solamente in virtù della fede, e che il tentativo di affidare la propria vita al solo lume della ragione conducesse inesorabilmente alla disperazione. Trentacinque anni vissuti da nichilista, come lui stesso scrive nelle sue memorie, sfociarono all’improvviso in una rinnovata fede in Cristo. Nei suoi scritti autobiografici, Tolstoj racconta la sua evoluzione spirituale, il suo travagliato percorso di riavvicinamento alla religione, che lo portò a riguadagnare il valore positivo e profondo del messaggio cristiano, e trasformò profondamente la sua esistenza e la sua visione del mondo. Tutti i valori in cui credeva furono invertiti e sovvertiti, letteralmente scambiati di posto: “Cessai di volere quello che volevo prima e incominciai a volere quello che prima non volevo. Quello che prima mi sembrava buono mi apparve cattivo e quello che prima mi sembrava cattivo mi apparve buono”3. Nella fede bisognava cercare il senso vero dell’esistenza, il segreto di una felicità che appariva finalmente raggiungibile a chi avesse trovato il coraggio e la forza di liberarsi delle regole imposte dalla società e seguire con fiducia gli insegnamenti di Gesù. La società era quella ingloriosa della Russia ottocentesca, che innalzava l’intera struttura sociale sulla diseguaglianza e sull’ingiustizia, e in cui la ricchezza delle classi dirigenti gravava interamente sulle spalle degli umili lavoratori. In questa realtà, il conte Lev Nikolàevic Tolstoj, membro della privilegiata nobiltà, decise di rinunciare agli agi della propria condizione e iniziare a vivere come i contadini mujiks, indossando le loro stesse vesti, privandosi della servitù e liberandosi persino delle suppellettili che corredavano la sua abitazione. Stravaganze, forse, che testimoniano tuttavia la grandezza di un uomo di commovente e lungimirante sensibilità, che seppe rinunciare ai privilegi e denunciare un’ingiustizia sociale di cui non fu mai vittima. Stravaganze che furono forse alla base di quel filone di critica che vuol vedere in Tolstoj un anarchico o un sobillatore, o che finirà con l’individuare in lui il teorico ante litteram dell’ateismo sovietico. In realtà, quello che animava Tolstoj era un sentimento religioso che ebbe più che altro la natura di un assunto etico, che si fondava sul principio cristiano della rinuncia a sé e dell’amore verso gli altri; è dunque in tale ottica che bisogna leggere la sua bizzarra, commovente fuga dalla ricchezza e dalla gloria terrena. Il tormentato scrittore russo trovò nel messaggio cristiano una risposta, un sentiero tracciato, una via da seguire. La sua intima crisi spirituale finì con l’assumere il respiro dell’universalità, poiché diede vita a una riflessione filosofica di portata immensa che, lungi dall’aprirsi al misticismo, si caricò invece di una forza etica, pragmatica, antropologica, ponendo al centro dell’attenzione la questione esistenziale, la domanda eterna dell’uomo riguardo al senso della vita. L ’esegesi tolstojana dei Vangeli racchiudeva in sé un valore umanistico autentico, poiché fu condotta nel tentativo di individuare un significato, di fornire una risposta alla questione etico-pragmatica del “come vivere?”, indicando come unica via quella del compimento del bene, della rinuncia a se stessi e dell’amore incondizionato verso il prossimo. Le semplici parole di Cristo rappresentano per Tolstoj l’orizzonte luminoso, il messaggio liberatorio e universale che indica a tutti la strada da seguire per trovare il senso della vita e per raggiungere la felicità.
L’esigenza di superare la frammentarietà delle interpretazioni teologiche fu dunque all’origine dell’intenso lavoro di rilettura-riscrittura dei quattro Vangeli che Tolstoj iniziava e portava a termine nell’arco di due anni, fra il 1880 e il 1881, proprio allo scadere del decennio cruciale degli anni Settanta. Ne veniva fuori l’Unificazione e traduzione dei quattro Vangeli, cui seguiva alcuni anni dopo la pubblicazione di un compendio divulgativo, la Breve esposizione dell’Evangelo. L ’idea centrale dell’insegnamento evangelico è rappresentata, nella concezione tolstojana, dal Discorso della montagna, in cui Gesù pronuncia il grandioso messaggio delle beatitudini. Avviene così la genesi della Vita di Gesù proposta in questa pubblicazione. La natura umana del Cristo tolstojano balza in primo piano; ma l’accento è posto sulla parola di Gesù, sulla semplicità del suo messaggio, sulla naturalezza con cui egli indica la via verso il bene, con cui cerca di orientare l’umanità, smarrita nella ricerca di un significato. Le parole di Cristo costituiscono la base anche del secondo scritto, La felicità, ma in una forma che è più quella di una piccola prosa filosofica, in cui la valenza etica dell’insegnamento cristiano viene esplicitata fino a diventare un modello comportamentale: in tal senso, forse, può apparire evidente la straordinaria attualità, o meglio, l’immortalità del messaggio religioso, così come ci viene consegnato dall’impareggiabile scrittore russo.
Il libro: Lev Nikolàevi Tolstoj, “Vita di Gesù e altri scritti”, Prefazione e cura di Davide Romano, Edizioni EL, pp. 64, euro 12,00
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