Immigrazione, frontiere, sicurezza: l’identità europea cambia se resta fedele a se stessa

In tema di immigrazione, chi siamo noi europei? E chi è questo sconosciuto che la tecnologia delle comunicazioni porta davanti alla nostra porta? Il ricordo delle invasioni “barbariche” non è scomparso dalla coscienza europea. Occorre ricordare che i fondatori dell’ONU crearono contemporaneamente le istituzioni di Bretton Wood (1944) e l’UNESCO (1945).

L’uomo, per convivere pacificamente, non ha solo bisogno di sicurezza economica (cibo, alloggio, ecc.), ma deve anche poter “andare d’accordo” nel primo senso del termine, delimitando il proprio territorio e rispettando quello dell’altro. L’economia, quando gli squilibri si ampliano, e la cultura, quando gli atteggiamenti si congelano nell’estremismo religioso o ideologico, sono le principali cause delle guerre.

Che cosa siamo oggi: la ricerca di identità dell’Unione tra immigrazione, frontiere e sicurezza

Nazionalismi estremi e ricerca della “purezza etnica” sono oggi gli esempi più eclatanti di “significati” accecati e univoci. Non hanno più nulla di democratico né nella loro espressione, né nei mezzi della loro attuazione. Intendono creare “territori” a dispetto di ogni realtà. Con i flussi di popolazioni che si muovono in varie direzioni, l’omogeneità culturale di uno spazio non copre più alcuna realtà di fatto. Sotto la pressione dell’interdipendenza economica, della prossimità di vite e della diffusione delle informazioni a prescindere dai confini, la convivenza diventerà necessaria. Viene così fuori la questione del diritto del suolo e del diritto del sangue, che merita una riflessione approfondita se vogliamo riuscire, un giorno, a consolidare l’Unione europea. La caduta del Muro di Berlino ha evidenziato la perdita dei punti di riferimento: quelli del bene e del male, quelli del nostro territorio e dei nostri interessi. La questione aperta dell’identità europea è venuta alla luce del sole, senza le comode stampelle fornite dal cosiddetto “impero del male” e dalla strategia della deterrenza. Ormai, non esiste sicurezza interna senza condivisione di valori ed attuazione delle stesse nella realtà. 

BRICS e Unione europea, valori a confronto

La sicurezza interna non è attuabile in assenza di sicurezza internazionale. Lo dimostra sempre più chiaramente da trent’anni il terrorismo islamico che ha preso le mosse dalla zona mediterranea, al quale s’aggiungono oggi le ripercussioni nate dall’aggressione della Russia contro l’Ucraina a Nord e a Est dell’Unione europea. I due giganti Euroasiatici a guida dei BRICS dichiarano di voler promuovere la pace e lo sviluppo dei popoli. Confrontati al progressivo allargamento dei BRICS verso il Sud Globale, occorre farsi la seguente domanda: il loro sogno e quello degli Occidentali radicati sui valori nati in Grecia due millenni fa sono la stessa cosa? La guerra scoppiata contro l’Ucraina sembra indicare che lo sviluppo istituzionale dei BRICS rischia più di portarci ad una nuova guerra fredda – se non calda sull’intero pianeta – come succede già oggi fino al cuore del continente europeo. Di qui un ulteriore domanda: i popoli dei BRICS, oggi allargati[1], non hanno forse gli stessi sogni di pace, sicurezza, giustizia e benessere nell’uguaglianza e nell’onestà? O forse le tre “fonti di potere” – politico, economico e sociale – dopo aver portato all’affermazione del diritto di voto a livello universale ed essersi avvicinati tra di loro in Europa per un secolo, dalla caduta del Muro di Berlino si starebbero allontanando l’uno dall’altro? A Ovest con un sempre più profondo deficit democratico, e ad Est con il ritorno all’uso del terrore. Come faceva osservare una cittadina russa emigrata nell’Unione europea: «ci è stato permesso per dieci anni di vivere nella libertà, adesso stiamo progressivamente tornando a queste purghe staliniane di prima della Seconda guerra mondiale (1936-38)». Fanno meglio sperare le priorità che il Brasile si è dato nell’impostare la presidenza del G20, ponendo l’accento sull’inclusione sociale, la lotta alla povertà e alla fame, sullo sviluppo sostenibile, la transizione energetica, sull’esigenza di un’equa tassazione di attività economiche che generano immensi profitti, e sulla riforma della governance mondiale. Tutti temi che sono prova tangibile della portata globale della politica estera, come evidenziato dal Presidente Mattarella a Rio de Janeiro: «occorre essere allineati sulle buone cause, contro le disuguaglianze, contro la fame, per il clima – una transizione verde che sia concreta, pragmatica, sostenibile ed efficace – per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutte le nazioni, il rispetto dei diritti umani e della Carta delle Nazioni Unite. E un allineamento che fa appello anzitutto alle grandi democrazie, a partire da quelle dell’emisfero meridionale: Brasile, India, Sud Africa, Indonesia. Fa appello all’Unione europea».

Le frontiere garantite dallo Statuto ONU del 1945 come garanzia di stabilità

Per trovare fondamenti a soluzioni per il futuro, è inutile guardare indietro per cercare chi nella storia ha più diritto di chiunque altro su un determinato territorio: il Nord dell’Italia appartiene ai Romani, ai discendenti dei Visigoti, ai Papi, ai Francesi, agli Austriaci o ancora agli Italiani? Se si vogliono evitare le guerre, non v’è dubbio che le frontiere garantite dal diritto internazionale, stabilito dallo Statuto delle Nazioni Unite (1945), come riconosciuto da quasi un secolo da oggi 193 Stati membri, sono le uniche a potere assicurare la pace, non solo sul continente europeo – come lo è stato fino a quando la Russia le ha violate impossessandosi della Crimea Ucraina (2014) – ma anche sull’ intero pianeta, oggi e domani. Ma con i mezzi tecnologici che arrivano fino alla minaccia di inviare armi nucleari nello spazio, cade ogni prescrizione di inviolabilità delle frontiere e di risoluzione pacifica dei conflitti. Sono tuttavia ipotesi nemmeno più concepibili di fronte al rischio di distruzione dell’intero pianeta. Non è più possibile modificare le frontiere degli Stati, nate dagli accordi riconosciuti nell’àmbito ONU, senza far nascere guerre che mettono concretamente in pericolo la salvezza dell’umanità, e non solo potenzialmente, come si poteva ipotizzare ancora dieci anni fa.

Anche se l’organizzazione mondiale nata dalle Nazioni Unite ha riflesso lo stato di rapporti di forza dell’epoca e conferito più poteri ad alcuni Stati rispetto ad altri, la soluzione degli attuali conflitti politici, economici o sociali non si trova più nelle revisioni delle frontiere, un’opzione pericolosissima per tutti. Piuttosto, le soluzioni si trovano sulla base di accordi negoziati secondo il principio della sussidiarietà e con il contributo delle moderne tecnologie di comunicazione che favoriscono la circolazione delle persone, delle informazioni e delle idee. Vale, a questo proposito, il metodo europeo delle aperture negoziate delle frontiere (questi lunghissimi “processi di adesione”). Aperture negoziate e non aperture a tutti. Ad esempio, le frontiere rimangono chiuse – o almeno dovrebbero – ai membri delle organizzazioni criminali, e a chi non riconosce i principi costituzionali. Sono invece aperte a chi condivide i valori che reggono la comunità di un determinato territorio. In sostanza, le frontiere si aprono per chiunque rispetti i valori comuni formalizzati nelle carte costituzionali e le leggi che ne derivano.

La linea rossa che unisce Unione europea e democrazie liberali

Insieme ai limiti del rispetto delle frontiere e di non ingerenza negli affari interni dei vicini, limiti che s’impongono per evitare conflitti, se ne aggiunge un altro di valore ben superiore che s’impone non solo ad ogni Stato democratico, ma a tutti gli Stati firmatari dello Statuto delle Nazioni Unite. È il limite fissato dall’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948, oggi con 193 Stati firmatari): «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona». Questo principio vale come “giusta causa” per la intromissione negli affari interni di un Paese a tutela delle persone perseguitate. Dunque l’intromissione, con mezzi pacifici s’intende, negli affari interni di uno Stato estero in tempo di pace si giustificherebbe, per le democrazie liberali, quando viene messo in pericolo il diritto alla vita dell’individuo. Invece, non si giustifica mai per mera difesa o protezione di interessi economici propri. Tale dovrebbe essere il filo rosso che, sulla base della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, le democrazie liberali dovrebbero difendere in ogni sede e situazione, nei negoziati con i paesi BRICS da cui provengono contestazioni, e con i paesi del “Sud Globale”. Quando in tempo di pace[2], in violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, le vite di persone sono messe in pericolo da volontà e/o comportamenti statali, l’ingerenza negli affari interni dei Stati rei di tali violazioni troverebbe una base legale. In tali casi, l’ingerenza non sarebbe solo un diritto ma anche un dovere. Il preservamento della sua stessa ragione etica di esistenza e sopravvivenza sarebbe precisamente la linea rossa che l’Unione Europea dovrebbe rispettare e difendere.

Prof.ssa Myrianne Coen, Phd. Consigliere d’ambasciata e membro del Laboratorio sui BRICS dell’Eurispes