
«Consolati: tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».
Blaise Pascal
Sono nato in una famiglia di credenti come tante altre, di quelle che la domenica indossano l’abito buono e seguono i riti con la precisione degli orologi svizzeri. Da bambino frequentavo i cortili dell’oratorio locale dove i pomeriggi si consumavano tra pallone e preghiere recitate a memoria. Poi vennero gli scout, con i loro fazzolettoni colorati e quella straordinaria palestra di vita che è dormire sotto le stelle e imparare che il mondo è più grande di quanto sembri dalla finestra di casa. Avevo una religiosità naturale, spontanea come quella dei ruscelli che scendono a valle: seguivo un percorso già tracciato, fatto di tradizioni, cerimonie e quel senso del dovere che ti fa alzare quando tutti restano seduti.
Dopo il liceo, con l’entusiasmo dei vent’anni, mi sono immerso negli studi teologici. Le grandi domande sull’esistenza mi chiamavano come sirene e io rispondevo con la curiosità divorante dei giovani. I grandi pensatori del passato erano diventati i miei compagni di viaggio. Agostino, con le sue “Confessioni” che parlavano al mio cuore inquieto, era come un vecchio amico che aveva già percorso la strada che io stavo iniziando. Ma la mia era una fede cerebrale, intellettuale: studiavo l’infinito come si studia la matematica, con formule e teoremi. Come dice il Qoelet: “Chi accresce il sapere, accresce il dolore” (1,18), e io accumulavo conoscenza ma non saggezza.
Diventato giornalista, il mio taccuino si riempiva di storie di spiritualità, ma anche di cronache su mafia e politica. Ho attraversato continenti e culture, ho visto la fede indossare abiti diversi in ogni latitudine. A un certo punto del viaggio, ho abbandonato la religione dei padri per abbracciarne una che sembrava più vicina alle mie inquietudini. Continuavo a cercare con sincerità, ma la mia ricerca aveva ancora il sapore dell’obbligo, come quei compiti che si fanno per dovere ma senza gioia. Ero come quelli che Paolo descrive nella Lettera ai Romani: “Avevano zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza” (10,2).
Poi è accaduto l’imponderabile, nel momento in cui avevo smesso di aspettarmelo. Non cercavo più per paura o per convenzione, ma è stato il mistero a trovare me. Era l’estate del 2018, durante un ritiro spirituale. Meditando sul racconto di quel figlio che abbandona la casa paterna per poi tornarvi pentito, ho sentito un macigno premermi sul petto. Come un animale ferito sono uscito all’aperto e ho gridato tutta la mia stanchezza e la mia ribellione verso quel cielo che sembrava di piombo. E in quel momento, nel silenzio assoluto delle cose che stanno per accadere, sono stato toccato da qualcosa che non ha nome. Come scrisse Kierkegaard: “La fede comincia precisamente là dove finisce la ragione”, e io ero finalmente al limite della mia.
Ho sperimentato ciò che Lutero descrive parlando della giustificazione per fede: non ero io a dover conquistare l’infinito con le mie opere, era l’infinito che mi aveva già cercato da sempre. Mi ha trovato quando vagavo senza meta, mi ha aperto gli occhi e finalmente ho compreso cosa significa essere accolti nonostante tutto, non per merito ma per gratuità pura. Karl Barth diceva che “Dio è Colui che viene”, e io ho vissuto questo venirmi incontro, senza che potessi fare nulla per meritarlo. Come dice l’apostolo Paolo: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, è il dono di Dio” (Efesini 2,8).
Da allora, come un innamorato che ha finalmente incontrato l’amata, il mio desiderio è stato vivere e raccontare questa esperienza. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, “la grazia non è a buon mercato”, non è un semplice velo sugli errori commessi, ma è la forza che trasforma dal di dentro. Non voglio più una spiritualità fatta solo di concetti o di rituali vuoti, ma una relazione autentica con ciò che mi trascende, una vita dedicata a qualcosa di più grande di me. Il salmista lo esprime perfettamente: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio” (Salmo 42,1).
Non so ancora quale strada prenderò domani, ma so che voglio seguire questa luce con tutto me stesso. Il mio augurio è che ogni giorno vissuto possa riflettere un po’ di questa scoperta, che possa essere un piccolo faro per chi ancora naviga nell’oscurità, un segno tangibile che l’amore esiste. Come dice Giovanni Calvino: “La nostra saggezza consiste nell’abbracciare con mite docilità, e senza riserve, tutto ciò che ci viene insegnato nella Sacra Scrittura”.
Che il mistero continui a guidarmi e a guidare chiunque legga queste righe, affinché possiamo vivere nella verità di ciò che siamo chiamati ad essere.
Davide R. Romano