Fra il 2000 e il 2021 i livelli di istruzione in Italia sono cresciuti più lentamente della media dei paesi OCSE. La quota di giovani fra i 25 e i 34 anni con un titolo di istruzione universitaria è cresciuta infatti di 18 punti percentuali (dal 10% nel 2000 al 28% nel 2021) rispetto a una crescita in media di 21 punti percentuali. L’Italia resta uno dei 12 paesi OCSE in cui la laurea non è ancora il titolo di studio più diffuso in questa fascia di età.
È un ritardo da tempo noto, ma non perciò meno preoccupante. Soprattutto alla luce del fatto che in tutti i paesi OCSE avere un titolo di studio terziario conviene perché garantisce migliori livelli di occupazione e retribuzione. È vero, tuttavia, che il beneficio economico in Italia risulta minore che altrove: nei paesi OCSE in media un laureato nell’arco della vita lavorativa (25-64 anni) guadagna il doppio di chi non ha un titolo di istruzione secondaria superiore; in Italia questo vantaggio è meno cospicuo: 76% in più.
All’interno della miniera di dati sui sistemi d’istruzione italiano e di tanti altri paesi nel mondo che si possono trovare nel Report dell’OCSE Education at a Glance 2022 – Uno sguardo sull’istruzione, questi sono i primi che l’organizzazione internazionale ha inteso evidenziare.
Il nuovo Report e i principali dati sull’Italia sono stati presentati oggi alla stampa, nel corso di un evento organizzato congiuntamente da OCSE, Fondazione Agnelli e Save the Children, in contemporanea con la presentazione internazionale di Education at a Glance 2022, con la partecipazione in sala del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che ha chiuso gli interventi.
La presentazione si è svolta a Roma presso la sede di Save the Children. Dopo il benvenuto di Daniela Fatarella (direttrice generale Save the Children Italia), il rapporto e la scheda sull’Italia sono stati illustrati da Giovanni Semeraro (ricercatore OCSE). Sono seguiti i commenti di Raffaela Milano (direttrice Programmi Italia-Europa Save the Children), Andrea Gavosto (direttore Fondazione Agnelli) e Daniela Vuri (prorettrice alla Ricerca Università di Roma “Tor Vergata”).
Education at a Glance è la principale fonte internazionale che ogni anno fornisce una comparazione delle statistiche nazionali (nella nuova edizione in buona parte relative al 2021), grazie alle quali misurare lo stato dell’istruzione nel mondo. Il rapporto analizza i sistemi educativi dei 38 paesi membri dell’OCSE, più Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa. Oltre a un capitolo sull’impatto della crisi COVID-19, l’edizione di quest’anno include un focus sull’istruzione universitaria. Altri indicatori comprendono: la spesa pubblica e privata per l’istruzione; i vantaggi economici e di guadagno dell’istruzione; l’ingresso e il conseguimento del diploma di istruzione universitaria; gli stipendi dei dirigenti scolastici; le dimensioni delle classi, gli stipendi degli insegnanti e i tempi dedicati all’insegnamento.
Per quanto riguarda l’Italia, il Report anche quest’anno conferma un quadro di criticità dell’istruzione, non mancando, tuttavia, di sottolineare aspetti che – nel confronto internazionale – emergono come relativi punti di forza o comunque incoraggianti.
Fra questi, primo fra tutti l’elevata percentuale di bimbi fra i 3 e i 5 anni che frequentano la scuola dell’infanzia (92%), un dato che colloca il nostro Paese al di sopra della media OCSE, anche se bisogna ricordare che il monte ore di insegnamento dell’Italia è inferiore alla media europea (rispettivamente 945 e 1071 ore), con una minore offerta oraria nelle regioni meridionali. Nei successivi gradi di istruzione il monte ore (744 alla primaria, 608 alle medie e 608 alle superiori) risulta comunque di poco sotto la media UE (rispettivamente 740, 659 e 642), anche se sono presenti in Italia forti disuguaglianze territoriali nell’offerta di tempo pieno nei gradi inferiori, con le regioni del sud in netto svantaggio rispetto a quelle del nord.
Sopra la media OCSE, sia pure leggermente, si conferma nel 2021 anche la spesa cumulativa per il singolo studente della scuola dell’obbligo: per un ragazzo o una ragazza fra i 6 e i 15 anni spendiamo in Italia 105.750 dollari (calcolati a PPA, parità di potere d’acquisto, per tenere conto delle differenze del costo della vita fra i diversi paesi). Va osservato, tuttavia, che questo non si traduce in un’offerta di servizi e spazi scolastici uguale sui territori, dove esistono ampi divari, ad esempio, nell’offerta di tempo pieno, nella disponibilità di mense scolastiche o di palestre nella scuola primaria e secondaria di I grado.
L’Italia è invece decisamente agli ultimi posti per quanto riguarda la spesa per studente universitario: 12.000 dollari (PPA) all’anno contro una media OCSE di oltre 17.500.
Come sempre ampia l’informazione sugli insegnanti. Il Report conferma il dato noto che le retribuzioni dei docenti italiani sono basse e poco dinamiche, ciò che rende l’insegnamento nel nostro Paese una professione poco attraente. Entrando nel dettaglio, si sottolinea come le retribuzioni nei paesi OCSE vanno in media dai 42.000 dollari del livello pre-primario a più di 53.500 della secondaria di II grado, mentre in Italia si collocano a livelli inferiori, rispettivamente a 40.000 e 46.000 dollari. Anche le dinamiche nel tempo impressionano: dal 2015 al 2021 la retribuzione media OCSE di un insegnante di scuola secondaria di I grado è aumentata del 6%, ma in Italia l’incremento è stato inferiore, solo dell’1%. Interessante, infine, il confronto nei diversi paesi fra la retribuzione degli insegnanti e quella degli altri laureati. Nel 2021 in Italia un docente di secondaria di I grado ha guadagnato il 27% in meno di un lavoratore full-time laureato (media UE, -11%).
La retribuzione dei dirigenti scolastici è invece dappertutto in genere superiore a quella di un lavoratore full-time laureato (media UE, + 31%), in Italia è più alta del 73%.
Un significativo indicatore del deficit di efficacia dell’istruzione in Italia in vista dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro che emerge nel Report è la crescita del numero già elevato dei giovani adulti che non hanno un lavoro, né seguono un percorso scolastico o formativo (NEET), rischiando di avere risultati economici e sociali negativi a breve come a lungo termine. Dopo essere salita al 31,7% durante la pandemia nel 2020, la quota di NEET tra i 25 e 29 anni in Italia ha continuato ad aumentare fino al 34,6% nel 2021. Tale quota è diminuita tra il 2019 e il 2020 dal 28,5% al 27,4% per i giovani tra 20 e 24 anni, ma è poi aumentata fino al 30,1% nel 2021. Questa situazione rischia di perpetuare il circolo vizioso che va dalla povertà economica a quella educativa, e viceversa.
Un’importante differenza fra l’Italia e gli altri paesi OCSE è la distribuzione dei titoli di studio terziari. Mentre in Italia fra la popolazione fra i 25-64 anni il 14% ha una laurea magistrale e il 5% triennale, la media OCSE vede una situazione opposta, con il 19% di lauree triennali e il 14% magistrali.
Il conseguimento di un titolo di studio universitario facilita l’ingresso nel mercato del lavoro, ma con forti differenze tra tipi di lauree. Nel 2021 il tasso di occupazione dei laureati in medicina e nelle professioni sanitarie o nei servizi sociali era pari all’89%, ma solo del 69% tra i laureati nelle discipline artistiche.
Inoltre, gli studenti di triennale che si laureano entro tre anni dalla fine della durata teorica del corso di studio in Italia sono solo il 53% contro una media OCSE del 68%. Per quanto riguarda il supporto finanziario fornito agli studenti universitari, il 38% degli studenti in Italia ne è destinatario (generalmente borse di studio e servizi per il diritto allo studio universitario), posizionando il nostro Paese in una posizione intermedia tra quelli di area OCSE con un’elevata percentuale di studenti che ricevono supporto finanziario (80%) e altri con percentuali più contenute (meno del 25%).
Education at a Glance contiene anche numerose informazioni sugli effetti del gender gap in istruzione, ad esempio, sottolineando come la nota relazione positiva fra titolo di studio e livelli di occupazione sia particolarmente forte per le donne. Nel 2021 in Italia solo il 31% delle donne in possesso di un titolo d’istruzione inferiore al diploma di scuola superiore erano occupate (media UE, 40%) mentre fra le donne laureate il tasso di occupazione era del 70% (media UE, 83%). Per gli uomini, invece, le differenze sono assai meno marcate: si va dal 64% per chi ha un livello d’istruzione inferiore al diploma secondario (media UE, 66%) al 71% per i maschi laureati (media UE, 88%). Un’altra declinazione del gender gap compare nell’istruzione universitaria, laddove si segnala che in Italia, come del resto in tutti gli altri paesi OCSE, i tempi di completamento dei percorsi di laurea sono più rapidi per le donne. Nel nostro Paese il 56% delle studentesse consegue la laurea triennale entro tre anni dalla fine dei corsi, mentre questo riesce soltanto al 50% dei loro colleghi maschi.
“L’analisi dell’OCSE individua nodi critici che devono essere messi al centro dell’agenda del nuovo Parlamento e Governo. A partire dall’accesso all’università e dal mancato inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, con la conseguente perdita di talenti e la drammatica crescita dei giovani NEET. Tuttavia, le disuguaglianze nascono molto prima: già durante la scuola primaria gli esiti degli apprendimenti differiscono, seguendo le condizioni socioeconomiche familiari e territoriali, e questi divari non fanno che aumentare durante tutto il percorso di studi, favorendo la dispersione scolastica. Per intervenire alla radice delle disuguaglianze educative è dunque necessario investire sin dalla primissima infanzia, con una rete di asili nido e servizi educativi di qualità accessibili a tutti. La definizione di un livello essenziale delle prestazioni per raggiungere il 33% della copertura dei servizi in ogni ambito territoriale e l’assegnazione di rilevanti risorse nell’ambito del PNRR per la costruzione di nuovi asili rappresentano passi avanti significativi. Questo processo va monitorato anche per dotare le nuove strutture di personale educativo adeguatamente formato e per raggiungere prioritariamente i territori più deprivati, con un forte impegno nel contrastare sul nascere la povertà educativa” ha dichiarato Raffaela Milano, direttrice Programmi Italia-Europa di Save the Children.
“Il nuovo Report conferma una volta di più che dappertutto, anche in Italia, studiare conviene. In primo luogo, per avere un lavoro e retribuzioni migliori. Ma anche perché livelli d’istruzione più elevati sono – come sappiamo – correlati con una salute migliore, una maggiore partecipazione alla vita civile e capacità di comprendere l’altro. Per tutte queste ragioni dobbiamo fare crescere il numero dei nostri laureati, oggi ancora fra i più bassi nei paesi OCSE. Ma agire sui livelli di istruzione non basta: al di là del titolo, conta ciò che si sa davvero. Perciò è fondamentale fare crescere i livelli di apprendimento e di competenze dei nostri studenti, che soprattutto nelle scuole secondarie sono insoddisfacenti e peggiorati con la pandemia, nonostante la spesa pubblica per la scuola – infanzia, primaria e secondarie – sia allineata, se non talvolta superiore, alle medie europee e OCSE”. ha dichiarato Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli.
“Malgrado il numero dei laureati sia aumentato in Italia negli ultimi 10 anni, abbiamo ancora troppi pochi laureati soprattutto della triennale rispetto agli altri paesi europei: questo dipende dal fatto che solo un diplomato su due si iscrive all’università e i tassi di abbandono sono ancora troppo elevati. Investire sull’orientamento durante la scuola superiore può essere cruciale per compiere scelte consapevoli e vincenti. Garantire l’aumento del tasso di istruzione universitaria va tutto a beneficio del tessuto economico-sociale del Paese. L’orientamento deve essere progettato già a partire dalla scuola secondaria di I grado e progetti specifici possono rivelarsi la chiave per avvicinare le studentesse alle materie STEM e colmare il gender gap nei salari che esiste nel mercato del lavoro.” ha dichiarato Daniela Vuri, prorettrice alla Ricerca Università di Roma “Tor Vergata”.