di ANDREA FILLORAMO
Rispondo ad una lunga email inviatami da un sacerdote.
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Carissimo don Arturo (nome di fantasia), leggendo la tua email, inviatami domenica 28 novembre, mi sono immediatamente rammentato di quello che diceva Socrate: “Costui crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è proprio per questa piccola differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di sapere quello che non so” (Platone, Apologia di Socrate).
Il riferimento a questo “logos” socratico che quanti hanno studiato nei Licei filosofia conoscono e quindi conosci anche tu e che io qui cito senza alcuna arroganza intellettuale, mi dà la possibilità di esprimere la mia soddisfazione di scrivere – come sempre ho fatto – solo ciò che è utile non solo a me ma particolarmente agli altri.
Ritengo che i miei scritti, ospitati da parecchio tempo da IMGPRESS, siano soltanto, come tu fai osservare, spunti di riflessione e, volendo tornare a Socrate, aggiungo: mezzi utili alla “maieutica”, cioè a quell’arte e a quel criterio di ricerca della verità, suggerito dal filosofo ateniese, consistente nella sollecitazione del soggetto a ritrovarla in se stesso e a trarla fuori dalla propria anima.
Nei miei articoli concernenti, poi, la Chiesa Cattolica, e chiunque lo può osservare, non faccio assolutamente teologia anche se spesso ne lambisco i confini, in quanto, a mio parere, la teologia, almeno quella che si insegna nei Seminari o nelle Scuole Teologiche e che tu conosci e che, da quel che mi fai intuire forse l’hai anche insegnato, ha come unico luogo di produzione del suo sapere quello ecclesiastico, che, appunto perché tale non coltiva alcuna dimensione “pubblica” alla quale la gente si ritiene totalmente estranea.
Essa, infatti, nasce e si elabora, quindi, quasi esclusivamente “intra moenia”, con la conseguenza che si rivolge principalmente a coloro che fanno parte dei “sacri recinti” clericali, che spesso, data la complessità esegetica e le stesse problematiche interpretative, si autolimitano e non rendono o non possono rendere partecipi coloro che stanno all’esterno.
Essa diventa, così, una “pseudo scienza” esoterica”, “misterica” riservata e non di “accesso” a tutti, come, da quel che ho capito, vorresti probabilmente farmi pensare; quindi inevitabilmente portata a non avvertire il “fiato sul collo” di altre istanze di pensiero, e questo perché, già a livello di semplici spazi, non si trova a coabitare nei medesimi luoghi dove sono presenti altri pensieri e altre riflessioni, definiti in modo dispregiativo laici, “secolarizzanti”.
Bernard Sesboüé, uno dei più noti teologi francesi e tra le voci più importanti del post Concilio Vaticano II, alla domanda: “La chiesa ha bisogno dei teologi?” e, quindi, della teologia, così risponde: “Trovo questa domanda un po’ inquietante, perché sembra sottintendere che la teologia non interessi a nessuno; e che c’è gente che perde tempo a interrogarsi su questioni estremamente complesse, là dove invece potremmo benissimo farne a meno. È per me il segno che il contenuto della fede non suscita più interesse. E che la chiesa in fondo non ha bisogno del lavoro di quanti tentano d’interpretare la fede, di ritradurla, di renderla comprensibile – lavoro che esige di essere sempre rifatto a ogni generazione”.
Non fare teologia non significa, però, non pensare e non riflettere sul destino dell’uomo, sulle “cose ultime” e sul piano di salvezza che Dio ha disegnato e, quindi, al fatto che la storia della salvezza sia una storia di comunicazione e solo comunicando possiamo rendere partecipi gli altri, cosa che io nel mio piccolo cerco di fare e senz’altro farai anche tu nell’esercizio del tuo ministero.
Nell’ email, inoltre, tu scrivi che esprimo nei miei articoli, come sempre del resto ho fatto, le mie idee con coraggio e chiarezza ed io aggiungo: “in libertà”.
Si, è vero, caro don Arturo: in me, nello scrivere quel che penso, non c’è alcuna paura e, poi, paura di chi o di che cosa? La vera paura, quello che dobbiamo temere davvero, è, per me, l’incapacità di superare i timori che imprigionano il nostro animo e che ci impediscono di muoverci in libertà, di dimenticare la passione che mettiamo in quello che facciamo e l’entusiasmo per la vita, l’assenza di coraggio per superare i fallimenti e le avversità: sono queste le cose davvero terrificanti del mondo.
Giustamente, poi, fai osservare che devo svolgere il mio compito in una prospettiva di servizio agli altri. Hai sicuramente imboccato la strada giusta per giungere al mio interno sentire.
Scusami se richiamo il Vangelo che tu, in quanto prete, sicuramente conosci meglio di me.
Se scorriamo le pagine del Vangelo, infatti, ci accorgiamo che tutto ciò che fa Gesù è intriso di amore. Non conta ciò che si fa o non si fa, ma lo spirito con cui si fa. Non importa il ruolo che si svolge, quello di prete o di nonno, con la certezza, però, che nulla è piccolo di ciò che è fatto per amore.
Se c’è questo spirito di servizio, allora c’è la certezza che anche ciascuno di noi può diventare un segno per gli altri, un segno che dice gioia o capacità di donare qualcosa, fosse anche solo un po’ del proprio tempo… Se tutti poi viviamo con questo spirito di servizio d’amore faremo a gara nel rispettarci a vicenda e sapremo che ciascuno di noi è una nota di una grande melodia che Dio va scrivendo nella storia.
Ti saluto caramente.